Il risorto, ragione della nostra speranza
Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede, scriveva san Paolo. E senza fondamento il nostro sperare. Perché per la risurrezione di Cristo la morte non è più l'ultima parola, il male non è più il vincitore, Cristo li ha sconfitti definitivamente. Allora dolori, angosce, difficoltà , drammi... potranno farci soffrire, ma non piegarci. Il cristiano è uno che spera per sé e spera per il mondo, perché per lui c'è una via d'uscita, non tutto è chiuso, c'è un riferimento; oltre non c'è il vuoto, il nulla. Spera per sé e per il mondo, anche se tutto va nel senso contrario alla speranza. Ma nel mondo c'è speranza perché c'è il dono dello Spirito fatto all'uomo da Cristo risorto. C'è speranza non perché c'è lo spirito del mondo, ma perché c'è lo Spirito di Cristo. Per questo possiamo sperare. Questa certezza fa da sfondo agli interventi delle persone invitate a dare testimonianza della speranza, nonostante alcune situazioni di difficoltà che stiamo vivendo: Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso dalla mafia, il professor Luigi Zanesco direttore del reparto di oncologia pediatrica dell'Università di Padova e l'economista Stefano Zamagni.
La mafia e le guerre.
L'arcobaleno della risurrezione
di Rita Borsellino
Rita è la sorella del giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia assieme agli agenti di scorta il 19 luglio1992, per il suo impegno nella lotta contro Cosa Nostra.
È tanto che cammino, Gesù, ho percorso tante strade e questa sera avrei voluto fermarmi ai piedi della tua croce, diritta e con la testa alta, per raccogliere dal tuo sguardo ancora la forza per andare avanti.
In piedi, sotto la croce, per resistere ancora una volta alla tentazione di lasciarmi vincere dal dolore. Avrei voluto ancora imparare da Maria, tua madre, come ho imparato da Maria, mia madre, che bisogna guardare oltre il dolore per intravedere la luce della risurrezione.
Dice la Scrittura che al momento della tua morte, da mezzogiorno alle tre, si fece buio su tutta la terra. Conosco questo buio che cancella tutto, che annulla tutto: l'ho vissuto in via D'Amelio dodici anni fa, davanti al corpo di Paolo, crocifisso dalla violenza degli stolti, con le braccia tanto allargate sull'asfalto da staccarsi dal corpo, in un anelito infinito di fame e sete di giustizia.
L'ho visto nei corpi smembrati e martoriati di coloro che cercavano di proteggerlo, nuovi e più fedeli apostoli, che solo la morte ha potuto addormentare.
E mi tornano alla mente altri momenti accanto alla croce, momenti di festa, sguardi pieni di gioia e di consapevolezza dei tanti ragazzi che hanno portato per il mondo la croce della Giornata mondiale della gioventù, la tua croce, segno di riscatto e d'impegno.
Oggi però è difficile far festa davanti alle tante, alle troppe croci del mondo. Dovunque io volga lo sguardo, vedo la croce riflessa negli occhi dei bambini vittime delle tante guerre dimenticate che hanno fame e sete di giustizia e di pane e di acqua che le ingiustizie del mondo gli negano.
Ma non c'è, non può esserci pace senza giustizia e, come dice il Papa, non può neppure esserci giustizia senza perdono. Lo so bene, non è facile perdonare, l'ho vissuto sulla mia pelle. Ma tu ci hai detto di perdonare settanta volte sette e lo fai ancora qui, dalla croce, da quella croce alla quale ti abbiamo inchiodato con i nostri egoismi e con le nostre miserie e Tu ancora chiedi perdono per noi.
Sappiamo bene quello che facciamo.
Non è vero che non sappiamo quello che facciamo: lo sappiamo benissimo. È il tuo infinito amore che ti fa dire ancora così mentre noi continuiamo a rinnegarti tre volte e ancora tre e tre, incuranti del gallo che canta.
Per persuaderti delle nostre debolezze hai voluto provarle tutte: la povertà , la mancanza di un tetto, l'esilio, l'invidia, l'odio, il tradimento, il dolore. Hai pianto, hai chiesto di allontanare da Te la prova troppo difficile, ma non sei fuggito, non sei tornato indietro, non hai rinnegato, hai accettato tutto per amor nostro e ancora una volta hai perdonato.
Aiutaci Signore ad amare, aiutaci a prenderci cura dei nostri fratelli, di qualunque nazionalità siano, di qualunque colore sia la loro pelle. Anche di quelli della casa accanto o della stanza accanto, che non vogliamo come vicini.
Insegnaci a guardare ai loro bisogni, ma soprattutto ai loro diritti, che sono gli stessi che abbiamo noi. Aiutaci a prenderci cura dei loro bambini come ci prendiamo cura dei nostri.
Che non ci siano più manine di bambini, senza sorriso e senza giochi, costretti ad annodare tappeti che servono a far più belle le nostre case.
Che non ci siano più bambini che non hanno mai corso su un prato, curvi a cucire palloni con cui altri bambini giocheranno. Che non ci siano più bambini costretti a raccogliere bacche con cui altri faranno grandi uova di cioccolato che loro non vedranno mai. Fa' che non ci siano più bambini soldato, educati all'odio e alla morte, costretti a usare armi vere che uccidono, mentre altri bambini usano, in un gioco incosciente, armi giocattolo.
Consola, ti prego, le vittime dimenticate di terrorismi e guerre vecchie e nuove, frutto di un odio da cui nasce sempre odio nuovo.
Placa le tempeste dell'indifferenza in cui naufragano le barche disperate dei migranti.
Raccogli dalle strade del ricatto e della paura le donne, schiave per saziare voglie inconfessabili di uomini rispettabili.
Io non so, Signore, quanto manchi alle tre del pomeriggio, non so quanto ancora durerà tutto questo, nessuna sentinella può dircelo.
Facci Tu intravedere la luce della risurrezione, dacci di vedere una luce diversa dal bagliore delle bombe e dell'odio. Il rumore che sentiamo non sia quello delle esplosioni, ma quello della pietra rotolata dal sepolcro. Fa' che i lenzuoli bianchi non siano più sudari di morte, ma segni di libertà , che riflettano gli arcobaleni della risurrezione.
E così sia.
La sofferenza dei bambini.
Nella Città della speranza
a cura di Francesca Massarotto
La sofferenza dei bambini e la loro morte pongono interrogativi inquietanti sulla brutalità della vita, sull'esistenza stessa di Dio. A colloquio con il professor Luigi Zanesco.
Il professor Luigi Zanesco dirige, dal 1969, il reparto di Oncoematologia pedriatica dell'Università di Padova. In trentacinque anni di attività , nel suo reparto sono passaticirca quattromila bambini, assistiti dalle loro famiglie e dai volontari: milleottocento i malati guariti, quasi tutti negli ultimi anni. Chiediamo al professor Luigi Zanesco.
Msa. Di fronte allo scandalo della malattia e della sofferenza dei bambini, quali sono le reazioni più comuni?
Zanesco. Sono le più diverse: c'è chi si affida alla fede e chi se ne allontana. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, ho notato un rinforzo della fede, sia per i cattolici sia per quel 30 per cento di extracomunitari che hanno fedi diverse. Da parte mia, vivo la mia fede in modo conflittuale, ma mi affido alla preghiera del Padre Nostro, la trovo molto semplice e vera.
Una fede che aiuti a sperare e a combattere?
Si, chi ha fede spera in qualcosa, non solo nella guarigione: si dà in braccio alla Provvidenza, a Dio, a Qualcuno di più grande.
Come affrontate il dolore fisico?
Quando un bambino urla di dolore, cerchiamo di aiutarlo in ogni modo, ricorrendo anche alla morfina e, nei casi estremi, alla narcosi. Per la sofferenza psichica, più difficile da controllare, ricorriamo ad antidepressivi e antiansia. Ma i bambini sono bravissimi, a loro basta star bene e poter giocare. Sono gli adolescenti che si ribellano avendo l'esatta percezione delle cose. Anche i genitori si comportano in modi diversi: chi vuol sedare il figlio, chi lo vuol tenere sveglio, chi vorrebbe l'eutanasia, chi tentare tutto fino alla fine... La sofferenza psichica più grande la vivono i genitori.
Che cos'è per lei la speranza?
È sicuramente fondata sulle cure che facciamo. Se non avessimo speranza, questo lavoro potrebbe essere dimenticato. Quando abbiamo cominciato, la sopravvivenza era sul 10 per cento appena, un tenue filo di speranza. Oggi i bambini guariscono nell'80 per cento dei casi. Ricoveriamo centocinquanta nuovi malati ogni anno, tenendo conto che la cura dura in media due anni, ne abbiamo trecento in cura, più un 10 per cento di ricaduti: quattrocento in tutto. La cosa che più mi rende felice è sapere che i guariti hanno una vita normale. La prima malata, curata nel '68, ora ha quasi 50 anni e ha due figli. E ci sono già 120 bambini nati da nostri ex pazienti. E sono tutti sani! Tuttavia, se l'80 per cento guarisce, non posso dimenticare quel 20 per cento di loro che non ce la fa.
Di fronte a una sconfitta, come si sente?
Non è vero che anche a queste cose ci si abitua: la morte è sempre una sconfitta. Allora ho il cruccio di aver suggerito cure inefficaci. È vero che la morte fa parte del ciclo biologico della vita, ma penso che debba riguardare i vecchi. I bambini no, dovrebbero poter vivere.
Cosa le dà la forza di lottare ogni giorno?
Proprio la speranza. Il desiderio di vedere ogni mattina come stanno, l'ansia di farli star bene. Ora c'è un bambino in dialisi per insufficienza renale: ogni mattina corro per vedere come ha passato la notte. Ma la soddisfazione passa presto, mi pesano di più quelli che non guariscono.
Chi l'aiuta in questo lavoro?
A parte i medici e gli infermieri - tutti eccezionali - vorrei parlare degli aiuti esterni. Mi aiutano i cittadini del Veneto, i privati e i volontari. Sono stati costituiti due enti: l'Ail, Associazione italiana contro le leucemie, nata nel '75, e la Fondazione Città della Speranza nata nel 1994. L'Ail mette a disposizione 800 mila euro l'anno, gestisce case che ospitano i genitori dei pazienti nel periodo della cura, acquista medicine e offre aiuto concreto a famiglie in difficoltà , costrette magari a interrompere il lavoro per stare vicine al figlio malato. La Città della Speranza ha costruito l'80 per cento di un nuovo reparto per l'assistenza ai bambini malati di tumore, con una moderna sezione per il trapianto di midollo. Ora la Fondazione riesce a raccogliere circa un milione di euro l'anno da destinare alla ricerca, soldi offerti da privati, perché lo Stato manda davvero poco. Grazie alla Fondazione manteniamo uno standard europeo. Le cure più efficaci si sono rivelate negli ultimi dieci anni, grazie alla ricerca che ha fatto passi da gigante.
L'economia in positivo.
L'Italia, Paese dalle sette vite
a cura di Giulia Cananzi
Ora è importante recuperare quella forza per guardare avanti. I motivi per sperare, anche in economia, non mancano.
L'italiano sa, ha sempre saputo, reagire alle crisi con creatività e immaginazione. Oggi abbiamo toccato il fondo e la situazione non può che migliorare. Basta che... Lo dice il professor Stefano Zamagni, economista qui intervistato.
Msa. L'economia mondiale è percepita come un feudo di pochi potenti che fanno i propri interessi. Lei intravede semi di speranza che a noi sfuggono?
Zamagni. Innanzitutto, chiarisco che il pessimismo è amico solo di chi non vuole cambiare le cose. In questa fase storica, più che pessimisti dovremmo essere preoccupati. E vigilare. Ma i semi di speranza ci sono, eccome.
Il primo è proprio la tanto vituperata globalizzazione. Pur tra mille contraddizioni, essa sta avviando verso il progresso sociale ed economico Paesi che fino a venti, trent'anni fa vivevano in condizioni subumane. Un dato per tutti: negli ultimi venticinque anni, 800 milioni di uomini hanno superato la soglia della povertà . Oggi c'è ancora molto da fare, perché quelli che sono al di sotto di quella soglia sono un miliardo e duecento milioni. Senza la globalizzazione sarebbero, però, due miliardi. È il segno che, se si vuole e se si vigila, la globalizzazione può essere usata in favore dell'uomo.
Il secondo segno di speranza è legato alla progressiva liberazione del lavoro umano dalla routine e dall'alienazione. Questo è visibile soprattutto in Occidente ed è dovuto ai processi tecnologici in atto. Le tecnologie info-telematiche della terza rivoluzione industriale stanno scaricando dalle spalle dell'uomo il lavoro bruto, per restituire al lavoro creatività e libertà . Però ci troviamo di nuovo di fronte a un bivio: la tecnologia può essere utilizzata per far compiere questo passo in avanti all'umanità o può creare altre forme di alienazione e subalternità .
Il terzo segno è una novità assoluta per l'umanità . Per la prima volta nella storia, i processi lavorativi sono in grado di superare le disparità tra uomo e donna e dare a quest'ultima una libertà mai avuta in millenni. È una verità su cui si riflette poco e di cui le stesse donne sono ancora poco coscienti. Nell'epoca fordista (primi anni del '900), per esempio, la donna non poteva lavorare. Oggi, invece, il 51 per cento dell'umanità può aspirare a questa liberazione.
L'economia etica può essere il quarto segno di speranza?
Chiariamo subito un punto: o l'economia è etica o non è economia. Mi spiego: pochi ormai ricordano che l'economia è nata da una costola dell'etica, solo che oggi fa comodo dimenticare quelle radici. Ciò che oggi chiamiamo economia etica, cioè organizzazioni non profit (senza fini di lucro), organizzazioni non governative, finanza etica, microcredito, commercio equo e solidale... sono quello che l'economia dovrebbe essere: uno strumento a favore dell'uomo. In questo senso, sì, queste forme di economia sono una grande speranza: quella di recuperare le radici etiche dell'economia nella teoria e nella pratica.
E veniamo all'Italia. L'italiano medio è preoccupato, sfiduciato, in bilico. Dove possiamo riporre la speranza?
Il sentimento di precarietà è la conseguenza del degrado in cui è caduta la politica italiana. Quando i politici occupano il loro tempo a litigare e insultarsi, invece che a risolvere i problemi per cui sono stati eletti, la sfiducia è legittima. Detto questo, ci sono anche ragioni oggettive per preoccuparsi, ma non sono un buon motivo per essere pessimisti. Non dimentichiamo mai che l'Italia è l'unico Paese al mondo che è sempre rinato. Le altre civiltà o sono sempre state in alto o, una volta cadute, non si sono più rialzate. L'italiano sa reagire con creatività e immaginazione, ce l'ha nel Dna. Oggi siamo al fondo, la situazione non può che migliorare. Basta che gli italiani mettano da parte i contrasti, scaccino le cassandre e facciano tesoro di quell'antica virtù: soprattutto per i loro figli.
La speranza è nel Dna del cristiano
di Luciano Bertazzo
Non corrono tempi bellissimi. Sono mille, se si vuole, i motivi per cui dolerci del presente ed essere preoccupati del futuro. Ma l'atteggiamento peggiore e più sterile sarebbe l'abbattersi, il su-bire la delusione, il pessimismo, o peggio, la disperazione. Soprattutto per un cristiano che ha la speranza inserita nel suo Dna. Una speranza che non disdegna il luogo e il tempo in cui vive, non dispensa dall'impegno per la costruzione, quaggiù, di un mondo dove ognuno possa vivere con dignità e serenità . Ma essa non si lascia chiudere entro questi confini, li travalica per aprirsi su orizzonti più vasti, gli orizzonti del futuro assoluto, del bene supremo della piena e irreversibile comunione con Dio, resa possibile dallo Spirito che il Cristo risorto ha effuso in noi come germe, come caparra di ciò che sarà e che ci consente di essere sicuri e di sperare.
Manteniamo senza vacillare la professione della speranza, perché è fedele colui che ha promesso, scriveva san Paolo agli Ebrei, e al discepolo Tito diceva: Lo Spirito è stato effuso da lui abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. Stanno qui le ragioni del nostro sperare.