Il santuario della rinascita
Nel 2006, quando tre frati minori conventuali arrivarono a Subukia, una cittadina rurale in piena Rift Valley, a 220 chilometri da Nairobi, in Kenya, la missione non iniziò sotto i migliori auspici. I confratelli di sant’Antonio erano stati chiamati dalla Conferenza episcopale del Kenya per sviluppare e prendersi cura del Santuario nazionale mariano «The Village of Mary Mother of God», che all’epoca era in realtà solo in abbozzo: un luogo in piena campagna dove si erano verificate alcune apparizioni. Ma a pochi mesi dal loro insediamento ci furono le elezioni, a cui seguirono contestazioni violente. «La zona di Subukia – racconta padre Kazimierz Szulc, il guardiano della comunità dei frati – era al centro degli scontri.
Molti furono uccisi, altri persero tutto quello che avevano e si ritrovarono profughi in casa loro». A centinaia, da tutte le zone circostanti, cercarono rifugio al santuario, anche perché esso è ubicato a poca distanza dalla città e nello stesso tempo in aperta campagna, dove più facile era la fuga. «Ci ritrovammo in casa decine di famiglie appartenenti a diverse tribù, poverissime, senza riparo e senza alcuna possibilità di guadagnarsi da vivere. Per prima cosa cercammo di confortarle, ma era difficile non rimanere sopraffatti dal loro dolore. Molti avevano bisogno anche di un aiuto psicologico».
Fu subito chiaro ai tre frati che non si trattava «semplicemente» di prendersi cura del santuario, ma di ricostruire la vita e la speranza di quel gregge disperato che era loro capitato in sorte.
Ma da dove cominciare? «Il numero dei profughi cresceva costantemente – continua padre Kazimierz –. La maggior parte delle famiglie aveva molti figli piccoli e praticamente nessuna possibilità di sfamarli. Nel frattempo, la gente dei villaggi intorno, anche loro poverissimi, accoglieva i nuovi arrivati, condividendo tutto quello che aveva. Ma noi tre frati che cosa potevamo condividere? Fu allora che ci venne l’idea di chiedere alla diocesi di affittare ai più bisognosi la terra intorno al santuario».
Costruire la comunità
I frati divisero così i 18 ettari a loro disposizione tra le 36 famiglie di profughi più segnate dalla violenza e le 40 famiglie più povere dei villaggi vicini. Non solo, cercarono di creare subito un’atmosfera di comunità che allontanasse il senso di precarietà e abbandono: «A creare un forte legame con queste famiglie così diverse tra loro ci aiutò molto il dono di un trattore. Andavamo di campo in campo ad arare i diversi appezzamenti e la gente apprezzava questo nostro sforzo di aiutarli. Iniziammo così a lavorare insieme, a pregare insieme e spesso anche a mangiare insieme. Eravamo diventati una comunità, fatta di tante diverse anime».
Un passo avanti che però rischiava di non avere un seguito se non si fosse trovato il modo di rendere stabile e duraturo il rendimento dei terreni e di cominciare a pensare a nuove attività che potessero integrare il reddito delle famiglie. «Qui la stagione delle piogge dura quattro mesi – spiega padre Kazimierz –, gli unici in cui si possa piantare il grano. Nella stagione secca è possibile coltivare altri tipi di verdura come pomodori, carote, cipolle, ma è necessario avere a disposizione l’acqua».
Occorrevano almeno un pozzo, delle cisterne di stoccaggio e un sistema di trattamento per le acque di scarico. L’altro problema erano i costi energetici davvero pesanti: «A Subukia l’allevamento del bestiame è tra le attività più diffuse, per questo abbiamo pensato che un impianto di biogas potesse fare al caso nostro».
Era ormai il novembre del 2009. Nonostante gli sforzi dei frati per trovare finanziamenti per quest’opera vitale per la gente, i soldi raggranellati non raggiungevano i 30 mila euro; ne occorrevano almeno altri 40 mila per poter finanziare il progetto. «Eravamo già molto esposti finanziariamente e per parecchio tempo perché impegnati a portare l’elettricità fino alla missione e a costruire una strada di cinque chilometri che collegasse Subukia al santuario attraverso i villaggi. Ma sapevamo che il progetto acqua non poteva più aspettare. La Caritas Antoniana e i suoi benefattori rimanevano per noi davvero l’unica speranza».
Il finanziamento arrivò nel marzo del 2010; circa un anno dopo, ad aprile del 2011, i frati annunciarono alla Caritas Antoniana la conclusione del progetto. «Il pozzo profondo 140 metri ha acqua in abbondanza e di ottima qualità per tutti: famiglie, lavoratori e pellegrini. Viene usata anche per l’irrigazione; noi stessi abbiamo un orto per produrre ortaggi e verdure che poi condividiamo con la gente. Il biogas funziona eccome. Abbiamo persino creato una cucina dove le donne preparano il cibo per la comunità. Non solo, abbiamo scoperto tra i nostri parrocchiani dei talenti insospettabili: c’è chi sa lavorare il legno, chi sa costruire oggetti e strutture e chi ha una innata propensione per i rapporti interpersonali. La scoperta ci ha spronato a creare delle nuove attività che permettono ad altre famiglie di sostenersi: c’è chi sta costruendo la via crucis, chi è in grado di creare dei percorsi nel territorio del santuario, chi cura e pulisce ambienti ed esterni, chi ancora accoglie i pellegrini. Ora la Conferenza episcopale del Kenya ha annunciato di voler costruire una chiesa più grande e ciò porterà altro lavoro. Intanto i pellegrini crescono di numero di giorno in giorno: sono cattolici, musulmani, ma anche appartenenti ad altre religioni. Perché in Kenya il santuario è un luogo di Dio, senza etichette. Tutto questo è anche un miracolo dell’acqua che voi ci avete donato. Da parte di noi frati e della gente che vive intorno al santuario, diversa per religione, tribù e lingue, vi arrivi un grazie sentito e la nostra benedizione».
Il progetto in breve
Costruzione:
Pozzo e cisterna sotterranea di 100 mila litri
Sistema di trattamento delle acque di scarico
Impianto di biogas
Acquisto:
4 cisterne di plastica di 24 mila litri
Tempi:
marzo 2010 – aprile 2011
Contributo locale:
euro 29.710
Contributo Caritas Antoniana:
euro 40 mila