Il Tuo popolo in cammino

Dal 25 al 30 novembre papa Francesco sarà in Africa. Visiterà Uganda, Kenya e Repubblica Centrafricana. La situazione, soprattutto in quest’ultimo Paese, è critica. Ma chi è vicino al Papa avverte: il Pontefice è determinato a partire.
20 Ottobre 2015 | di
Papa Francesco si accinge a visitare una delle periferie del mondo che più patisce gli effetti della globalizzazione: l’Africa Subsahariana. Accogliendo l’invito dei rispettivi capi di Stato e dei vescovi locali, Francesco si recherà dal 25 al 30 novembre in Kenya, in Uganda e nella Repubblica Centrafricana. Si tratta di un viaggio apostolico dal duplice significato: pastorale e geopolitico. Da una parte il vescovo di Roma avrà modo di visitare e confermare nella fede tre giovani Chiese, che peraltro rappresentano le principali tipologie ecclesiali presenti nell’Africa Subsahariana. Dall’altra, la missione papale toccherà alcuni scacchieri geopolitici la cui normalizzazione rappresenta, in termini generali, una questione irrisolta.

Uganda. Perla dell’Africa
La visita in Uganda è certamente quella più importante, in riferimento sia al numero dei cattolici che dei cristiani delle altre chiese; essi costituiscono insieme, complessivamente, circa l’85 per cento della popolazione. Ex protettorato britannico – indipendente dal 1962, un tempo denominata «Perla dell’Africa» – l’Uganda ha giocato in questi anni un ruolo strategico, a volte destabilizzante, nelle vicende che hanno afflitto la Regione dei Grandi Laghi; basti pensare al suo coinvolgimento nella guerra nell’ex Zaire. È bene ricordare che l’Uganda fu il primo Paese dell’Africa Subsahariana a essere visitato da un Papa dei tempi moderni: il beato Paolo VI, dal 31 luglio al 2 agosto del 1969. Il giorno stesso del suo arrivo nella capitale, Kampala, papa Montini inaugurò il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) e rivolse una memorabile allocuzione ai vescovi africani, nella quale, tra l’altro, dichiarò: «Voi africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta». Paolo VI sottolineò poi l’urgenza di un’autentica inculturazione del Vangelo nella società africana, affermando: «Voi potete e dovete avere un cristianesimo africano».

Papa Montini si misurò con una realtà ecclesiale nata grazie al sacrificio dei martiri ugandesi, un gruppo di 22 servitori, paggi e funzionari del re dell’etnia Baganda, convertiti al cattolicesimo dai missionari d’Africa (padri bianchi), fatti uccidere in quanto cristiani sotto il regno di Mwanga II, tra il 15 novembre 1885 e il 27 gennaio 1887. Si tratta dei primi africani subsahariani a essere venerati come santi dalla Chiesa cattolica. Dopo il loro martirio (Tertulliano scriveva che il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani...) vi è stata una fioritura di comunità cristiane che ha decisamente segnato la storia di questo Paese africano. Va comunque ricordato che l’Uganda è anche stata visitata da san Giovanni Paolo II nel febbraio del 1993, nell’ambito di uno storico viaggio che si concluse nella capitale sudanese Khartoum.

Purtroppo, fin dalla sua indipendenza, l’Uganda è stata profondamente segnata dall’ideologia dello «Stato-Nazione», in un contesto variegato composto da numerosi gruppi etnici. Ecco che allora il potere è sempre stato gestito da oligarchie locali, assecondando dinamiche coercitive ed escludenti rispetto all’esigenza di partecipazione della società civile. Il fatto stesso che l’attuale presidente Yoweri Museveni abbia preso il potere con le armi nel gennaio del 1986 e da allora non abbia mai passato lo scettro del comando a un suo successore – nonostante molti siano stati i pretendenti – la dice lunga.

Sebbene la Chiesa cattolica ugandese si sia distinta nel promuovere iniziative di confronto e di dialogo sui temi della giustizia e dello sviluppo, l’Uganda è afflitta da una crescente esclusione sociale che penalizza i ceti meno abbienti. In questa prospettiva, la visita di papa Bergoglio costituirà l’occasione per rivendicare i diritti degli esclusi in un Paese, fino a pochi anni fa, con un’economia in prevalenza basata su agricoltura e terziario e apparentemente privo di rilevanti risorse nel sottosuolo. Nel giro di pochissimi anni, in seguito alle esplorazioni petrolifere nella regione del Lago Alberto, iniziate nel 2006, l’Uganda si è però trovata a dover negoziare con le principali compagnie petrolifere internazionali i diritti di estrazione sulle sue abbondanti riserve di oro nero. Una situazione simile a quella di altri Paesi africani, con risultati assolutamente negativi per le popolazioni autoctone. Sono esemplari i casi della Nigeria, dell’Angola e del Gabon, nei quali la scoperta del petrolio ha accentuato paradossalmente disparità e povertà.

Kenya. La difficile convivenza
Altra tappa significativa del viaggio di papa Francesco è  il Kenya, un Paese visitato per ben tre volte dal suo predecessore, san Giovanni Paolo II, nel corso del pontificato. Sebbene qui i cattolici siano solo 8 milioni su un totale di oltre 44 milioni di abitanti, la Chiesa cattolica si è fortemente impegnata nell’evangelizzazione, in un contesto socio-politico-economico caratterizzato da una crescente divaricazione tra ricchi e poveri.

Il Kenya non ha mai patito alcuna guerra civile dalla sua indipendenza dalla corona britannica, avvenuta il 12 dicembre del 1963, contrariamente, ad esempio, ad altri Paesi del Corno d’Africa come l’Etiopia, il Sudan o la Somalia. Ciò non toglie che l’integrazione dei vari gruppi etnici che lo compongono è ancora oggi problematica. Essi, infatti, hanno sperimentato, in alcuni frangenti, forti tensioni innescate dalle oligarchie locali per il controllo del potere. Il fatto che questo Paese sia stato governato finora, formalmente, da un regime parlamentare, in effetti non significa affatto che esso possa essere considerato la culla della democrazia africana. Fenomeni come la corruzione e il nepotismo hanno una valenza endemica e sono la principale causa dell’esclusione sociale che interessa i ceti meno abbienti. Inoltre, l’impegno militare dell’esercito keniano nella vicina Somalia, per arginare il movimento islamista al-Shabaab, che controlla vasti settori della Somalia centro-meridionale, ha causato un effetto collaterale non trascurabile: il terrorismo. Da quando, nel 2011, il governo di Nairobi ha autorizzato le proprie truppe a passare il confine, formazioni jihadiste somale hanno compiuto in Kenya numerosi attentati che hanno seminato morte e distruzione.

Basti pensare alla strage degli studenti cristiani di Garissa, avvenuta lo scorso 2 aprile. Il numero complessivo delle vittime, molte delle quali uccise a sangue freddo, è stato di 150 unità, a riprova della ferocia dei miliziani somali. Papa Francesco, da questo punto di vista, è chiamato a essere araldo del Vangelo della pace, scongiurando la tentazione, sempre in agguato, di una strumentalizzazione della religione per fini eversivi. La cooperazione di tutte le confessioni religiose presenti oggi in Kenya, tra cui la comunità islamica – ben radicata lungo la costa dell’oceano Indiano –, rappresenta una sfida per il futuro di questo Paese.


Centrafrica. Paese stremato
Un messaggio, per certi versi, dello stesso tenore dovrà essere rivolto dal Pontefice anche allo stremato popolo centrafricano, il cui Paese è precipitato nell’oblio più assoluto, a seguito di una sanguinosa guerra civile. La scintilla che ha innescato lo stato di conflittualità è stata la nascita, nell’agosto del 2012, della coalizione Séléka in cui sono confluite diverse formazioni armate. Dopo alterne vicende, la Séléka ha preso il potere rovesciando il governo del presidente François Bozizé. Il successivo scioglimento del Séléka, nel settembre del 2013, non ha portato subito gli effetti sperati anche a causa del costante e progressivo ingresso nel Paese africano di mercenari sudanesi e ciadiani – molti dei quali inquadrati all’interno di cellule eversive jihadiste –, ai quali si sono contrapposti gruppi di autodifesa fedeli a Bozizé, per proteggere la popolazione dai banditi che imperversavano nella regione. Purtroppo il caos ha generato una spirale di violenze senza precedenti, che ha causato un fiume di sangue.

L’elezione di Catherine Samba-Panza alla presidenza di transizione, grazie al voto del parlamento, ha segnato l’avvio di un graduale processo verso la pacificazione. I problemi però continuano e, sebbene la stampa internazionale abbia presentato la guerra civile che ha devastato il Paese come una guerra di religione, dietro le quinte si celano in realtà interessi economici. L’oggetto del contenzioso è rappresentato dalla smisurata ricchezza del sottosuolo di questa ex colonia francese. A parte i giacimenti di petrolio a Birao, vi è una quantità notevole di diamanti nei grandi depositi alluvionali delle regioni occidentali del Paese. Come se non bastasse, sono anche stati identificati depositi di oro, ferro e, soprattutto, uranio. Quest’ultima fonte energetica è localizzata a Bakouma, una località a circa 500 chilometri dalla capitale, Bangui. Una cosa è certa: i delicatissimi problemi di «state-building» fanno di questa martoriata nazione africana la cartina al tornasole del pensiero debole di una politica internazionale incapace di affermare la globalizzazione dei diritti. A papa Francesco il compito di dare voce a chi non ha voce. 


Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017