Il valore di un confine

Dobbiamo rispettare il desiderio degli altri di sostare nel proprio dolore come essi stessi desiderano. soprattutto quando chi soffre vuole vivere in solitudine la sua condizione. Nelle relazioni possiamo contare solo su «conquiste» parziali.
27 Aprile 2011 | di

 Più volte ho riflettuto, anche in queste pagine, sulla sofferenza (e la sua percezione), descrivendola come risultato di associazioni improprie tra elementi (Disabilità non fa rima con solitudine, «Messaggero di sant’Antonio» novembre 2008) o come una prospettiva grazie alla quale ci possiamo riappropriare di una capacità «visionaria» per intendere e modellare la realtà (La fragilità visionaria, «Messaggero di sant’Antonio» maggio 2010).
Ma cosa dire rispetto alla condivisione della sofferenza?
Nadia mi ha scritto di M. e della sua volontà di vivere il dolore da solo: «Non so nulla di che cosa possa voler dire sperimentare ciò che lui soffre. Questo potrebbe rappresentare una distanza incolmabile? Ma, considerata la nostra specifica unicità, sarebbe mai possibile partecipare del vissuto altrui? Sarebbe tremendo e, direi, andrebbe contro ciò che mi pare l’originalità (il segno, l’orma interiore) dell’essere persona, ossia la possibilità – o quasi necessità – costitutiva del rivolgersi al “tu”. In una cecità subita o scelta, senza lo sguardo altrui, che cosa potrebbe restarci se non il deserto?». 
 
Rispondo che non si tratta di stabilire che cosa si perde nei casi in cui non è possibile essere o rendere partecipi di qualcosa che riguarda altri o noi.
Le cose non sono a senso unico.
Le cose, nostro malgrado, sono mobili, mutevoli. Non c’è un’essenza da rispettare o smentire. Non ci sono terreni da conoscere necessariamente. Se M. viveva quel dolore in modo non condiviso, a un certo punto occorreva prendere solo atto di quel che diceva e desiderava. E forse trarre una lezione anche da questo.
Nadia, ancora, chiede: «Tu scrivi in un modo molto intenso. Non ho facile accesso alla tua scrittura, ma ci provo. È come una sfida a rompere, a primavera, delle zolle indurite e resistenti. Perché mi sono messa in mente di rispondere, tuo tramite, a M.? Forse non so misurarmi con la malattia. Irrazionalmente la temo. Mi chiedo: è rifiuto della fragilità il mio? Il tuo dire mi ha indicato di scavare più a fondo. La sottintesa intenzione del “dare” viene messa in discussione quando tu dici che non si tratta di “stabilire che cosa si perde”. Si tratta forse di oltrepassare sia termini di “gestione” che di “giudizio”? Ma allora... è il caso di scrivere a M.?».
 
È vero: a volte le parole e i pensieri sono come zolle dure in primavera, che vanno «forzate» per essere attraversate, piegate, avvicinate. E, nel mio caso, tanto più la situazione è così, quanto più sento un argomento difficile, non solo da scrivere e descrivere, ma anche soltanto da pensare. Non solo difficile per il ragionamento, quindi, ma anche rispetto alla capacità di affrontarlo, di «arrivarci» con il sentire. Lì si creano dubbi e incertezze che la scrittura deve cercare di mimare e riportare, anche «indurendosi», se necessario. In una realtà inafferrabile non possiamo muoverci come se essa non fosse tale. Il rischio è che questo atteggiamento, a sua volta, produca incertezze. Agendo diversamente, però, rischiamo proprio di non capirla affatto questa realtà e di produrre solo incomprensioni o ferite nel confronto con gli altri.
Il punto, allora, è che non possiamo contare che su «conquiste» parziali: ci viene chiesto di abbandonare di continuo posizioni per occuparne altre. Questo non vuol dire smentire noi stessi o quello che sta davanti a noi o, appunto, costringerci all’inazione. Vuol dire provare a costruire e ricostruire un rapporto più intenso con le cose e con le persone, affinché comprendiamo che non abbiamo di fronte dei monoliti, non stiamo interpretando e parlando a dei minerali.
Ma non era di «semplice» sofferenza che dovevamo discutere?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017