Il vescovo delle favelas

Dieci anni fa moriva Helder Câmara, l’arcivescovo di Olinda e Recife. Per alcuni era il «fratello dei poveri», per altri era il «vescovo rosso».
29 Giugno 2009 | di

C`mara era nato a Fortaleza, in Brasile, nel 1909, undicesimo di tredici figli; divenne sacerdote a 22 anni e qualche anno più tardi ricevette l’incarico di vice assistente nazionale dell’Azione Cattolica. Nel 1952 fu nominato vescovo ausiliare di Rio de Janeiro e nello stesso anno divenne il primo segretario della Conferenza episcopale brasiliana, che lui stesso aveva contribuito a creare. Tre anni più tardi organizzò il Congresso eucaristico internazionale e collaborò alla fondazione del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano). Cominciò a occuparsi e preoccuparsi dei più poveri e bisognosi avviando attività assistenziali e di promozione umana, mentre a Rio iniziavano a chiamarlo «il vescovo delle favelas». Nel 1964, anno nel quale un golpe instaurò il regime militare in Brasile, Paolo VI lo trasferì come arcivescovo titolare nella sede episcopale di Olinda e Recife (una delle zone più povere del Brasile), dove si impegnò con passione per il rispetto dei diritti umani e la giustizia sociale, guadagnandosi la fama di «fratello dei poveri», araldo dei «senza voce». Furono anni difficili, segnati da minacce e persecuzioni da parte del regime, mentre alcuni suoi collaboratori, sacerdoti e laici, venivano arrestati e torturati con l’accusa di attività sovversive.
Partecipò attivamente ai lavori del Concilio Vaticano II; il cardinale Roger Etchegaray lo ricorda con queste parole: «Nessun altro vescovo, penso, ha vibrato tanto, con tutte le fibre del corpo e dello spirito, dinanzi a questo avvenimento (il Concilio Vaticano II). Nessun altro vescovo, al Concilio, ha spinto tanto lontano il suo impegno di pastore di una diocesi, al punto da scrivere quotidianamente una circolare inviata a una rete di collaboratori brasiliani che lui chiamava “la sua famiglia” con mezzi artigianali che facciamo fatica a immaginare nella nostra epoca di e-mail e sms».

Amato e controverso

Nel 1968 C`mara trasferì la sua residenza presso la minuscola e periferica Igreja das Fronteiras (Chiesa delle Frontiere), dove risiedette sino alla sua morte. All’impegno a favore dei poveri e al coordinamento di numerose iniziative di promozione sociale, iniziò ad alternare viaggi all’estero, rispondendo ai moltissimi inviti che gli giungevano da ogni parte del mondo. A tutti offriva il suo messaggio di pace, giustizia e non-violenza: «Sviluppo è il nuovo nome della pace»; «Non c’è pace senza giustizia»; «La prima violenza è la miseria in cui versano tante masse», soleva dire. A quanti lo accusavano di essere un «vescovo rosso», un demagogo cripto-comunista, rispondeva con una frase divenuta celebre: «Quando aiuto i poveri dicono che sono un santo. Quando parlo delle cause della povertà dicono che sono comunista». E aggiungeva: «Come cristiano non posso accettare la violenza armata. Sono convinto che solo l’amore può costruire, non ho alcuna fiducia nell’odio. Questo ho capito dal Vangelo e questo predico».

Quando venne in Italia, nel 1974, ai giovani riuniti in piazza Duomo a Milano, in preparazione dell’Anno Santo 1975, raccontò questo episodio della sua vita: «Una volta entrai in una misera capanna per dare a una povera donna il sacramento degli infermi. Quella povera creatura, in stato di coma, già cominciava a presentare i segni della morte. Il fetore era tanto forte che immediatamente mi sentii male. Dopo aver assistito, come era possibile, questa povera ammalata, chiamai in disparte una signora altrettanto povera che curava la moribonda con grande affetto. Le chiesi se era parente dell’ammalata ed essa mi disse che, venuta ad abitare in quel quartiere solo da quindici giorni, aveva scoperto quella povera abbandonata. Essa pensava che, sfortunatamente, era quasi nulla ciò che poteva fare per assisterla: le allontanava le mosche, sollevava sul cuscino la testa dell’ammalata e, con un panno imbevuto d’acqua, le bagnava le labbra. Ho baciato le mani di quella cristiana autentica, ricordandomi che dà molto chi dà di cuore, e dà tutto chi dà di cuore tutto ciò che può. Ricordate queste parole: nessuno è tanto povero che non possa aiutare, e nessuno è tanto ricco che non abbia bisogno di aiuto».
Candidato più volte al Nobel per la Pace, C`mara venne insignito di prestigiosi riconoscimenti e di una cinquantina di lauree honoris causa dalle università di tutto il mondo. Compiuti i 75 anni, nel 1985, lasciò il governo dell’arcidiocesi e divenne presidente delle Obres de Frei Francisco (Opere di Frate Francesco), un’istituzione che aveva contribuito a fondare diversi anni prima e con la quale organizzò molte iniziative, fra le quali la campagna «Anno 2000 senza miseria». Al suo funerale parteciparono migliaia di persone e sono ancora molti oggi coloro che vanno in pellegrinaggio sulla sua tomba.

Quest’anno, intervistato dalla Radio Vaticana, il presidente della Conferenza episcopale brasiliana, Geraldo Lyrio Rocha, ha dichiarato: «È molto grande, enorme, l’eredità che ci lascia dom Helder C`mara, specialmente perché ha preso una posizione così forte, chiara, (…) e ha lasciato una parola di speranza, con i gruppi che ha cercato di creare dappertutto, con questo suo impegno per la non violenza attiva, invitando i cristiani ad assumersi le loro responsabilità davanti alle situazioni di povertà e di ingiustizia. Ha lasciato un esempio forte, che la Conferenza nazionale dei vescovi ha cercato di portare avanti, con fedeltà, perché questa è un’eredità preziosa, lasciata da un profeta, da un uomo di Dio che vedeva il mondo con gli occhi di Dio».
Per il bispinho brasiliano la preghiera, l’ascolto e il dialogo con Dio, erano fondamentali: sin dall’epoca del seminario aveva acquisito l’abitudine alla veglia notturna. «Il Signore – raccontava – mi ha dato il grande dono di svegliarmi verso le due di notte, di restare sveglio un’ora o poco più – ora durante la quale ricompongo la mia unità con Cristo – e poi di farmi riaddormentare fino alle sei del mattino. È in questi momenti di silenzio che, ritrovata la mia unità in Cristo, scopro mille ragioni per vivere, prego e preparo gli incontri del giorno che sta per arrivare».
Stare con Cristo, pregare, cercare e trovare la comunione con Lui: è da questo che tutto comincia. Valeva per Helder C`mara, vale per ogni cristiano.     

In libreria. Conoscere dom Helder

Sono molti i libri che portano la firma di Helder C`mara: quello di più recente pubblicazione è Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II (Ed. San Paolo, € 28,00): i brani che compongono il volume sono una significativa parte delle numerose lettere che il vescovo scrisse a collaboratori e amici durante i lavori del Concilio Vaticano II. Segnaliamo inoltre Parole ai giovani (Ed. Queriniana € 6,00) che raccoglie alcuni dei moltissimi discorsi rivolti ai giovani
di tutto il mondo, e La Madonna sul mio cammino (Ed. Queriniana, € 8,50) che presenta le preghiere alla Vergine scritte tra il 1945 e il 1974.

L’ultima intervista. Un sacramento di Dio

Era dicembre, un caldo e umido pomeriggio brasiliano del 1998. Avevo faticato un po’ ad attraversare la città, Recife. Passando da un autobus all’altro, avevo finalmente raggiunto la sua casa, anzi, la sua chiesa. Dom Helder – così lo chiamavano le persone alle quali chiedevo informazioni – viveva sul retro della sacrestia che si trovava addossata alla chiesa di Rua Henrique Diaz. Lì riusciva più facilmente a pregare e a incontrare i suoi poveri.

Dovetti ancora attendere qualche ora prima di poterlo avvicinare. Non stava bene, ma mi avrebbe certamente incontrato. Sapeva che venivo da lontano.

Da alcuni giornali avevo imparato a conoscerlo come il «vescovo delle favelas», da altri come il «vescovo rosso», da altri ancora come il «patrono» della teologia della liberazione; dagli uomini di Chiesa ne avevo sentito parlare con stima, accompagnata, non di rado, da qualche «distinguo»; dai suoi scritti avevo intercettato il respiro largo e profondo del poeta, innamorato di tutto ciò che è umano; dalle sue parole avevo potuto assaporare la magia del profeta, capace di parlare al cuore e di segnare la vita; dai suoi gesti avevo capito che non è possibile farsi pellegrini di giustizia e di pace senza affrontare i deserti dell’incomprensione e del travisamento.

Entrando nella sua piccola stanza, ho incontrato un corpo minuto, provato dal tempo e dalla malattia, debole, ma con lo sguardo profondo, fragile ma sorridente, infiacchito ma pronto ad allargare le braccia scarne in gesti instancabili di benedizione.

Avevo mille domande nel cuore. Ma, ha cominciato lui a interrogare me. Parlava piano. Mi guardava diritto negli occhi, non si spostava: «Cosa vedi? Guarda – insisteva –, che cosa vedi?».

Poi, quasi affidandomi una confidenza, invitandomi a farmi vicino, mi sussurrò: «Sai, i bambini sì che sanno stupirsi, sanno interrogarsi, sanno gioire. Anche i giovani dovrebbero imparare a farlo».

Ma come li si può aiutare? «Dà loro cose semplici e scopriranno la verità. Lègali all’essenziale e scopriranno l’entusiasmo. Tutto ciò che distrae, tutto ciò che è sensazionale, apparente, va eliminato. Dà loro linfa per vivere e conosceranno la speranza. Rendili liberi!».

Cosa dobbiamo dire ai giovani? «... Che nessuno è così ricco da non poter ancora ricevere qualcosa, e nessuno è talmente povero da non avere niente da dare».

Dove cresce la speranza? «La speranza è un fiore. E può far fiorire perfino un deserto. Se uno coltiva dentro un sogno che non condivide con gli altri, il suo resta “solo un sogno”. Ma se molti hanno lo stesso sogno, allora lì comincia a nascere qualcosa di concreto, di vero, di reale».

E mentre mi parlava, le sue braccia si allungavano verso l’alto, quasi a indicare una direzione e a benedire un cammino riconosciuto, affascinante e impegnativo.

«Chi si strappa a se stesso per mettersi in cammino, pellegrino della giustizia e della pace – continuò lui, quasi sillabando, per dare il giusto peso a ciascuna parola – deve prepararsi ad affrontare anche i deserti. Non basta solo fare qualcosa “per” gli altri. Ciò che piú conta è farlo “con” gli altri. Non basta dire che i poveri sono senza pane: bisogna dire “perché” sono senza pane».

Mi aspettavo un uomo forte: ho incontrato una canna incrinata. Indossava una tonaca usata. Stringeva tra le mani solo un piccolo crocifisso di legno. Abitava una stanza povera e spoglia. Non aveva molte parole, ma solo occhi lucidi e interroganti, mani pronte ad accogliere, braccia tese all’incontro: un sorriso capace solo di verità e di tenerezza.
Un sacramento di Dio.

Germano Bertin

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017