INCURABILE?
Non si hanno confronti con altri paesi europei, ma il numero appare comunque pesante.
Ci si chiede allora: i morti della camera iperbarica dell'Istituto Galeazzi di Milano, il bambino che perde la vita sotto i ferri in una normale tonsillectomia, la garza dimenticata nel corpo del paziente durante l'operazione, quello a cui è stato asportato per errore il rene sano, sono i 'normali' casi di malasanità che di tanto in tanto fanno clamorosamente eco sugli organi di informazione, o sono indici mai statisticamente rilevati di un Servizio sanitario nazionale che fa acqua?
Cosa rende giustizia della qualità del nostro sistema di garanzia e cura della salute dell'individuo: i numeri degli interventi attuati o le notizie dei disservizi, degli errori, delle mancanze; il deficit, gli scioperi, le polemiche sul caso Di Bella? Oppure, ad esempio, la crescita rilevante del numero dei trapianti effettuati nonostante la scarsità di donatori nel nostro paese?
Un paese a due volti, l'Italia: incredibili risorse e capacità (a volte nascoste), insieme ad altrettanto impensabili - per un paese che vuole definirsi europeo a tutto tondo - disservizi. A certificare i quali, dal 1980 si impegna il Tribunale dei diritti del malato (emanazione del Movimento federativo democratico, associazione di tutela dei diritti civili). Circa 470 sezioni locali con 300 centri nelle strutture sanitarie e 10 mila cittadini che fanno le pulci quotidianamente a tutto ciò che non va negli ospedali, nelle cliniche, negli ambulatori sparsi sul territorio. È la cittadinanza attiva, come amano chiamarsi: gli unici che periodicamente sfornano rapporti di sintesi dei loro viaggi all'interno del Sistema sanitario nazionale. Ascoltano l'utenza, raccolgono informazioni e dati, li elaborano, li confrontano con quelli ufficiali; e poi fanno proposte, azioni di tutela, progetti mirati di intervento e di informazione. Una spina nel fianco della burocrazia sanitaria che non vuole cambiare le cose.
La loro ultima idea è il Progetto integrato di tutela dei diritti dei cittadini (il Pit), una sorta di centralino che costantemente accoglie le proteste, i suggerimenti, le richieste di aiuto degli utenti del servizio sanitario. Circa 20 mila contatti in un anno (giugno 1996-maggio 1997), di cui 9 mila nella sala operativa centrale e circa 11 mila dati provenienti dalle attività sul territorio. Dati che non hanno una rilevanza statistica - ci tengono a sottolineare - , ma che costituiscono comunque un buon termometro per misurare lo stato di salute del nostro Servizio sanitario nazionale. Che 'rivela uno stato febbrile' di non modesta entità : per dirla nel linguaggio medico ufficiale. In sostanza, l'analisi di 7 mila contatti (quelli le cui schede di raccolta sono più dettagliate) di pazienti che si sono rivolti al Pit dimostra che i servizi medici di routine, a cui accede la maggioranza dei cittadini, sono caratterizzati 'da una grave sottovalutazione e una situazione di incuria, che si ripercuotono su tutti gli utenti della sanità ', scrivono nella relazione Stefano A. Inglese, Giovanni Moro e Teresa Petrangolini, curatori del rapporto. Proprio i settori che maggiormente richiedono l'intervento dei pazienti (diagnostica, ortopedia, chirurgia generale, ostetricia, medicina generale, odontoiatria, oculistica, cardiologia, urologia, pediatria, gastroenterologia, e altri di primaria e diffusa necessità ) sono quelli che presentano più problemi.
Un atto d'accusa pesante
Ma vediamo in dettaglio su chi e cosa si appuntano le osservazioni degli utenti che si sono rivolti al Pit. Intanto emerge un dato che potrebbe sfatare l'ormai abusato luogo comune, che la sanità privata funziona meglio di quella pubblica: in proporzione le lamentele di coloro che si sono rivolti alle strutture private sono pari a quelle di coloro che hanno utilizzato centri pubblici per curarsi.
Ma non si può sfatare un'altra credenza, confermata invece dalle proteste: la burocrazia fa male più della malattia. Presi di mira, infatti, dalle telefonate e lettere spedite al Pit (il 36 per cento delle 7 mila) sono le amministrazioni che gestiscono uno o più passaggi degli iter necessari per accedere alla prestazione o ai rimborsi: Asl, ministero (sebbene le dirette competenze di questo siano poche), prefettura, comune, Inps.
Ma perché si telefona al Pit? Innanzitutto per protestare contro difficoltà di fruizione dei servizi (29,3 per cento dei casi): accesso a servizi e prestazioni, informazioni sulle strutture esistenti, modalità ed entità dei rimborsi, esenzioni e pagamento dei ticket, attese e ritardi ingiustificati, complicano la vita dell'utente già provato dalle malattie. Non è dato sapere se questi supposti ostacoli sono realmente tali o è solo carenza di quel minimo di sforzo necessario per informarsi. Ma tant'è: l'utente del servizio sanitario già si trova in condizioni particolari e andare in giro per sportelli, seguendo indicazioni precarie, con in mano complicati moduli da compilare non è affatto un problema di poco conto.
Dato allarmante sono quei 300 cittadini che hanno invocato l'intervento del tribunale perché credono di essere stati dimessi ingiustamente e prima del tempo dagli ospedali. Il nuovo sistema di pagamento a tariffa fissa dei servizi di degenza in centri di cura (i cosiddetti Drg), prevede standard di ricovero classificati per tipo di malattia. Se non ci sono complicazioni entro quel limite di giorni, le dimissioni sono obbligate, altrimenti a pagare la degenza è l'Istituto. Ma quando un paziente ritiene di non essersi completamente ristabilito e chiede di poter rimanere non a sue spese, qualche problema evidentemente c'è. Se poi in un anno ben 300 persone si prendono la briga di protestare presso un'associazione, significa quantomeno che c'è una certa difficoltà nel far capire come funziona il sistema: un malato, a tutto pensa meno al fatto che la sua malattia sia stata inserita in una statistica predefinita.
Il diritto alla protezione viene invocato dagli utenti del Pit, diritto a non essere abbandonati quando c'è necessità : 'Io pago, e proprio quando ho più bisogno mi si risponde: ripassi, attenda, ritelefoni a quest'ora', sembra di sentirle a gran voce le 1708 telefonate degli esasperati cittadini. Non meno gravi sono le accuse dei 1461 che richiedono certezza, informazione, documentazione.
Torniamo ai famosi errori riguardanti la diagnosi e la terapia. A lamentarsi al Pit sono stati oltre 1709 (più del 24 per cento), richiedendo consulenza legale e medica e lamentando sia errori nella diagnosi che nella terapia. Anche qui vale il discorso fatto sopra: saranno lamentele giustificate, esagerate, più o meno dovute a complicazioni non prevedibili? Non si sa, ma i numeri sono alti. Come alto è il numero di coloro che chiedono cosa si può fare per ottenere la riparazione del torto subito: 'Di fronte alla violazione di un diritto, non si attiva quasi mai una procedura che porti alla punizione, o almeno al richiamo del responsabile', scrivono i relatori del rapporto basandosi anche sulle informazioni delle sedi territoriali. Il sistema (con la s minuscola) copre i membri che ne fanno parte. Ed è un fatto molto grave, che alimenta sfiducia e disistima.
Una nota positiva: praticamente irrilevanti le osservazioni fatte sul comportamento degli infermieri: una significativa novità a testimonianza di un deciso innalzamento della qualità della categoria.
Ma di quali errori vengono accusati i medici? I settori più colpiti dalle critiche sono ortopedia, chirurgia generale, centro trasfusionale e ostetricia e ginecologia. Si va dalla sottovalutazione dei sintomi riferiti dal paziente al non riconoscimento delle lesioni nel primo settore; dalla anestesia inadeguata all'errato trattamento post-chirurgico, nel secondo; infezioni (soprattutto epatiti) nel caso delle trasfusioni; travaglio di parto eccessivamente prolungato, danni da sofferenza neonatale e l'errata esecuzione materiale dell'intervento chirurgico, negli altri casi. Tutto un campionario di ciò che troppo spesso viene definito dai responsabili 'un incidente, un imprevisto inevitabile'.
Alcuni denunciano anche morti sospette: sono 220 contatti, e qui l'errore - vero o presunto - assume l'aspetto di una tragedia, alla quale è difficile rispondere con una frase di convenienza. C'è da aggiungere che la fascia d'età più rappresentata è quella degli ultrasessantacinquenni, dato che solo in parte giustifica l'inevitabilità dell'evento.
Severe le conclusioni degli osservatori: emerge una ripetitività degli errori segnalati all'interno della stessa area di riferimento; una lieve prevalenza delle segnalazioni provenienti dalle piccole strutture dei piccoli centri. Un caso?
Le liste di attesa
Non terminano qui le osservazioni del Pit. Non paghi delle segnalazioni che arrivano spontaneamente, il tribunale ha fatto viaggiare per l'Italia, tra ottobre e novembre scorsi, un pullman con l'obiettivo di monitorare le liste di attesa di 51 strutture, distribuite su 31 città di tutte le regioni del Belpaese. Un'indagine (non una statistica) proprio sulla scia di quelle segnalazioni che disegnavano un sistema sanitario soprattutto di difficile accesso. I risultati.
Si può considerare efficiente un'azienda che fa aspettare per un'ecografia mammaria 4 mesi? È il caso degli Ospedali Riuniti di Bergamo, o dell'Ospedale di Circolo di Varese, dove dal momento della rilevazione non era possibile effettuare la prestazione prima dell'agosto 1998. E che dire delle ecografie nel primo trimestre di gravidanza? Solo nel 44 per cento delle strutture osservate, la prestazione erogata entro un mese. Peggio: nel 45 per cento dei casi la prestazione 'è di fatto inaccessibile'.
Per non parlare delle visite e delle terapie ortodontiche (tanto ci sono i dentisti privati...): 'Il servizio esiste solo nel 37 per cento delle strutture monitorate'! Viene definito un servizio virtuale: c'è ma non si vede. Nella Clinica ospedaliera di Bari non si accettano nuovi pazienti, all'Ospedale Burlo di Trieste c'è una lista di attesa di 2 anni, ma va peggio all'Ospedale San Martino di Genova dove bisogna attendere 3 anni se si ha dolore a un molare. Ma il record è ancora degli Ospedali Riuniti di Bergamo dove si stanno ora effettuando prestazioni prenotate nel 1990.
E ancora: perché gli abitanti della provincia di Latina non possono disporre di una struttura pubblica per effettuare un'amniocentesi e debbono recarsi altrove? Come i residenti nella regione Molise, che per la stessa prestazione debbono percorrere 100 chilometri e 2 ore di strada per arrivare a San Giovanni Rotondo (quasi un pellegrinaggio).
È bene precisare ancora che questa rilevazione non ha valore statistico, per questo non si può tracciare con questi dati un profilo del Servizio sanitario nazionale. Però servono a capire quante difficoltà i cittadini devono attraversare e quanto ancora lontano sia per molti il livello di efficienza considerato già ottimale in altri paesi europei.
La Carta dei servizi
Dunque, nulla sta cambiando e le notizie sono solo negative? No, qualcosa si muove. Dal 1995, infatti, il ministero della Sanità , sulla scorta dell'introduzione della Carta dei servizi pubblici voluta dall'allora ministro per la Funzione pubblica Sabino Cassese, ha avviato un programma di attuazione della Carta che ha dato significativi risultati. La Carta è una sorta di patto con il cittadino utente, una specie di impegno formulato dall'azienda (sia essa Asl od ospedale) ad attuare determinati standard di qualità , a verificarli, ad aggiornarli, a raccogliere reclami e ricorsi per eventuali inadempienze, a sentire le associazioni impegnate nella difesa dei diritti dei cittadini per consultazione sulle strategie da seguire. Insomma, un sistematico progetto di intervento. È esclusa da questa programmazione dei livelli minimi di qualità la prestazione medica in sé: troppo complicato (e riservato alla valutazione caso per caso) è stabilirne preventivamente uno standard ottimale. Mentre lo si può fare per quanto attiene a: tempi di attesa, procedure di accesso, informazioni, orientamento e accoglienza, qualità delle strutture fisiche (gli ambienti, il comfort, la pulizia) e relazioni sociali e umane.
Ebbene, l'impegno della qualità , tradotto in Carta cantante, è stato assunto (all'ultima rilevazione effettuata dopo il primo anno di programmazione, luglio 1996), dal 61 percento delle 310 aziende sanitarie. Un buon risultato, ma ancora lontano dai livelli di efficienza. Adottare, però, la Carta non ha significato automaticamente la definizione di standard di qualità : 13 aziende su cento di quelle che dicono di avere una Carta, non hanno definito a quali livelli di decenza si impegnano a tenere i propri locali, quali i tempi di attesa per le prenotazione, gli orari dei pasti, altri comfort, ecc. Insomma, non garantiscono l'oggetto principale del loro impegno. Dunque, meri propositi, qualche informazione agli utenti, un po' di notizie e... la chiamano Carta! Le altre 87, però, hanno stabilito cosa significa concretamente, secondo loro, offrire un servizio di qualità .
Sul tema dell'umanizzazione del servizio (per chi sta male anche un gesto di cortesia può significare molto) si sono impegnate 153 aziende, ma lo stesso rapporto del ministero sottolinea che 'è mancato un metodo sistematico per l individuazione dei punti critici su cui concentrare l'attenzione'. Però i passi avanti ci sono: alla Asl 1 della Campania, ad esempio, hanno previsto un numero verde Aids, e informazioni 24 ore su 24 per emergenze psichiatriche; all'azienda Istituti Ospedalieri di Cremona la differenziazione dei menu; o alla Ulss 7 del Veneto quella degli orari; molte aziende si sono impegnate a modifiche strutturali per dotare l'ospedale di sale di soggiorno, spazi per bimbi, strutture parallele per malati di patologie che prevedono lungodegenze; cartellini di riconoscimento degli operatori sanitari quasi dovunque; abbattimento delle barriere architettoniche; sale d'aspetto più confortevoli, revisione degli orari di visita dei familiari. Sono tra i principali standard che riguardano l'umanizzazione.
Prudenza è il retropensiero che sembra nascondersi per quanto riguarda i tempi di attesa delle prenotazioni: in gran parte le aziende (164 quelle che hanno adottato standard di questo tipo, un numero ancora scarso, il 50 per cento circa, a conferma delle constatazioni del Pit) hanno solo 'fotografato' l'esistente per timore di assumere impegni difficilmente mantenibili. Eppure quando il coraggio non manca i risultati si vedono: all'Usl 4 del Piemonte i tempi di attesa per la prenotazione di esami del sangue sono nettamente migliorati nei primi 6 mesi del 1996, passando da 10-15 a 5-6 giorni.
Ma una carta della qualità seria si gioca il suo asso sull'istituzione di una procedura di reclamo. Giusto o sbagliato che sia, il reclamo è la manifestazione di un disagio e insieme una risorsa da valorizzare. Se un cittadino ha sentito la necessità di scrivere per reclamare la violazione di un suo diritto, o ciò è vero o la difficoltà sta nel riuscire a comunicare quanto l'azienda è stata capace di fare. Comunque è un indicatore del grado di efficienza percepita dall'utente. Al ministero esprimono soddisfazione per quel 62 per cento di aziende che hanno adottato procedure di raccolta dei reclami. A dire il vero non pare un numero molto apprezzabile, soprattutto considerando che dal dire al fare...
In sostanza, una cosa è prevedere una risposta ai reclami, altra è realizzarla concretamente, ancor più importante è dare seguito alla risposta, intervenire nel ristoro del danno se c'è stato. Le note positive, comunque, sono la considerazione elastica che si ha del contenuto e della modalità di espressione del reclamo; inoltre, in quasi tutte le aziende si può reclamare anche per telefono, e tutte si impegnano almeno a dare una risposta; resta il fatto che gli Uffici reclami appaiono isolati rispetto a quelli di erogazione dei servizi, e scarsa ne è la conoscenza presso gli utenti. Il numero dei reclami va dai 10 in sei mesi nell'Usl di Penatria-Isernia (per quanto piccola, il numero appare davvero esiguo) ai 1500 in un anno dell'azienda ospedaliera S. Anna di Como.
Sulla comunicazione della Carta agli utenti la diversificazione delle realtà è ampia. Il 25 per cento delle aziende che ha già una Carta o non ha fatto nulla o sta ancora progettando; un altro 24 per cento ha più o meno organizzato una conferenza stampa; un altro 34 per cento l'ha distribuita a medici di base e farmacisti (cosa poi questi ne abbiano fatto non si sa). Encomiabili sono le 32 aziende (appena il 17 per cento) che sanno bene che una Carta è fatta per gli utenti e bisogna fare di tutto per farla conoscere. Opuscoli, manifesti, trasmissioni televisive, pieghevoli di agile lettura, rubriche radiofoniche, spazi allegati alle Pagine gialle sono gli strumenti principali. Su tutte spiccano l'azienda ospedaliera di Modena che, in collaborazione con il comune, ne ha distribuito 120 mila copie e l'Ulss 18 di Rovigo che l'ha spedita a tutti i nuclei familiari. La difficoltà lamentata da molte aziende è la corposa mole di testi difficilmente riversabile in un opuscolo e la tecnicità dei contenuti. Argomentazioni un po' pretestuose, smentite della positive esperienze (pur poche) esistenti. E se ci fosse una circolazione delle idee fra le diverse aziende?
La verifica degli standard
Della partecipazione di associazioni di difesa degli utenti alla programmazione e alla verifica degli standard le tracce sono scarse: solo il 25 per cento delle aziende ha costituito organismi misti di tutela, segnalando poi risultati non significativi. Pregiudizi, difficoltà di rapporto, novità ancora tutta da sperimentare: tutte le ragioni sono plausibili, ma resta da sottolineare che solo il confronto sistematico con l'esterno rende l'azienda una struttura dinamica in continuo progresso e miglioramento. Se si è frenati dal timore di mettere in mostra le proprie manchevolezze ci si arrocca nella difesa dell'esistente a tutto svantaggio degli utenti. Così solo il 16 per cento delle aziende con Carta (cioè 30 in tutto) ha organizzato una Conferenza dei servizi, occasione pubblica e rilevante per valutare l'andamento dei servizi, impegno già previsto dal decreto legislativo 502/92. Confortanti eccezioni a un generale clima di diffidenza verso una forma di 'democrazia sanitaria', sono le Ussl 39 di Milano, l'Ulss di Padova, l'Usl di Roma C e l'Asl 6 di Palermo.
Rimane, dunque, la verifica degli impegni presi il principale ostacolo per l'attuazione della Carta dei servizi, che sia concreto strumento di adeguamento dei propri servizi alle esigenze degli utenti. Quindi luci e ombre sul nostro Servizio sanitario nazionale. I miglioramenti ci sono e lo sforzo si vede. Ma dire al singolo paziente che riceve un torto che il livello medio in Italia sta crescendo, non ha senso: lui ha in testa il suo caso. Dire, inoltre, che la sanità è in deficit perché tutti pretendono, ma nessuno vuole contribuire, serve a poco. Occorre dare risposte serie, degne di un paese civile: che non evita tutti i possibili errori e disservizi, ma si attrezza in tutti i modi per prevenirli. E se succede qualcosa, sa rimediare.
I numeri della sanità
Un sistema sanitario che assiste 57.268.578 persone, di cui 21 milioni e mezzo esenti da ticket; 295 aziende sanitarie sparse su tutto il territorio; 1090 ospedali da gestire, più 799 case di cura. Un totale di 381 mila posti letto effettivamente utilizzati. 4076 ambulatori e laboratori pubblici (6638 le strutture accreditate) con una media di 14 per Usl e 5180 assistiti per struttura pubblica; 2294 consultori; 912 servizi di igiene mentale; 356 presìdi pubblici con attività per anziani, 947 per disabili fisici e psichici, 465 per tossicodipendenti, tutti pubblici.
Un'azienda pubblica enorme, che nel 1995 registrava più di 1 milione di dipendenti tra quelli direttamente a stipendio presso l'Usl, quelli dipendenti da strutture di ricovero Usl e quelli delle aziende ospedaliere. Più di 163 mila tra medici e odontoiatri, 409 mila infermieri e 107 mila figure tecniche sanitarie di altro tipo (analisti, tecnici di laboratorio, ecc.). I famosi, ma un po' troppo trascurati, medici generici sono 47.157, con una media di 1020 adulti per medico, e 8 visite annue per famiglia di lavoratori, media che sale a 17 annue per pensionato o disabile.
Pochi, invece, i pediatri: 5687 che hanno a carico ben 1380 bambini in media, con situazione assai diversificate per regioni: si va da 1 medico ogni 854 della Liguria ai 1006 del Piemonte, dai 2705 della Campania ai 4347 nel Molise.
Più di 18 milioni di interventi di pronto soccorso nel 1996 presso strutture pubbliche; ben 5 milioni e 236 mila di questi si sono trasformati in ricovero, e 21.801 sono deceduti. Cifre alle quali si aggiungono quelle relative agli interventi nelle aziende ospedaliere (2.710.968) e quelli nelle strutture accreditate (407.390).
Una spesa sanitaria con cifre da capogiro: più di100 mila miliardi, un disavanzo di 3325 miliardi rispetto al finanziamento acquisito e un rapporto percentuale di spesa generale rispetto al Pil di 5,4, in leggera crescita rispetto all'anno precedente. Cresce l'incidenza della spesa per il personale, salita nell'anno 1996 al 43,2.