Io, lei e l’altro

Nell’intimità di coppia tra due persone non autonome bisogna fare i conti con la presenza di una terza figura, la stessa che ci è indispensabile nell’assistenza quotidiana per i nostri bisogni primari e comunicativi.
23 Marzo 2012 | di

 Qualche giorno fa, durante una pausa caffè al Centro Documentazione Handicap dove lavoro, mi sono trovato coinvolto in un animato confronto tra due delle mie più esperte col­leghe con disabilità. La domanda che rendeva infuocata la bagarre era semplice, ma stimolante: come si può organizzare una cena a lume di candela con il/la proprio/a amato/a, quando non si è completamente autonomi?
La prima considerazione, in proposito, viene spontanea: la domanda presuppone che un disabile, anche grave, possa avere una normale relazione affettiva e di coppia. E questo, purtroppo, non è scontato. Solo fino a pochi anni fa, infatti, nell’immaginario collettivo le persone con qualche forma di deficit erano considerate bellissimi angioletti, senza una propria identità sessuale, mentre sappiamo che non è affatto così.
Ma la domanda si presta a una seconda sottolineatura. Nell’intimità di coppia tra due persone non autonome va quasi sempre messa in preventivo la presenza di un terzo individuo, lo stesso che ci è indispensabile nell’assistenza quotidiana per i nostri bisogni primari e comunicativi.
 
Fin qui nulla di nuovo, di per sé. Tuttavia, nella querelle tra le mie colleghe, questa considerazione ha scatenato un ulteriore interrogativo: posto che la terza presenza sia indispensabile alla nostra vita, come «incorporarla» nella relazione? Spesso infatti – è inevitabile – la presenza altrui finisce per condizionare la spontaneità della persona e il suo ruolo autonomo nell’intimità.
La diatriba mi ha subito richiamato alla mente un’e-mail ricevuta alcuni mesi fa da una lettrice con disabilità, che mi parlava delle difficoltà vissute con il suo partner, anch’egli in carrozzina. Così scrive la protagonista: «La nostra non sarebbe stata una vita di coppia, bensì una vita a quattro, con la mia e il suo assistente, al nostro fianco ogni giorno e a tutte le ore. Che relazione ne sarebbe uscita? Come avremmo potuto avere la necessaria intimità per comprenderci?».
La mia prima riflessione al riguardo è che è sbagliato generalizzare. Ogni coppia, sia essa disabile, normodotata o mista, possiede peculiarità proprie, e ciò vale anche nell’approccio all’intimità; allo stesso modo, ogni «terzo» può dimostrare un atteggiamento diverso di fronte all’affettività altrui.
 
Affrontare queste tematiche, inoltre, a mio parere, porta ad aprirci maggiormente verso nuovi schemi di relazione, senza preventivamente imprigionarci nei cliché consolidati della comune vita di coppia. La terza persona, infatti, non deve essere per forza un ostacolo o un complice, come d’altra parte non si può nemmeno pretendere che sia completamente neutra.
Sono discorsi molto delicati, che si reggono di fatto sui sentimenti, e quindi su fili relazionali molto sottili, in cui, volenti o nolenti, è facile inciampare. È chiaro che, in questi casi, garantire il rispetto di tutti ha come elementi discriminanti la conoscenza e la fiducia reciproche, che debbono essere sincere e condivise.
Importante, però, è non dimenticare che, se la vita di coppia può non essere del tutto autonoma, l’affettività lo rimane in tutti i casi. Autonoma da tutto e tutti, anche da quell’eventuale «portacandele» al seguito ventiquattro ore su ventiquattro.

Ma non mettiamo in secondo piano nemmeno i portacandele: non hanno vita facile, soprattutto quando si trovano in mezzo a emozioni esplosive…
Su questo aspetto vorrei interpellare anche voi lettori. Vi siete mai sentiti dei portacandele? E le vostre rispettive «candele», come hanno reagito?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017