Italia. L’uomo del 60º parallelo

30 Luglio 2014 | di
Trevisani ai confini del mondo. Fino addirittura al Polo Sud. Luciano Sartori, 66 anni, dal 1987 lavora, per circa sei mesi all’anno, nel cuore dell’Antaride. Per l’esattezza nella «Mario Zucchelli Station», così denominata in ricordo del primo capo spedizione. Talmente fuori dal resto della terra che, per raggiungere Sartori, ci vogliono trentadue ore di volo. Qui si sono insediate postazioni di ricerche scientifiche e tecnologiche nel campo della fisica, della biologia, dell’oceanografia e della geologia, provenienti da università italiane ed estere, che operano sotto l’egida dell’Enea (Agenzia per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico).

Qui lavorano dagli ottanta ai cento dipendenti, scienziati, ricercatori e tecnici. Arrivano da tutta Italia e anche dall’estero. In questo angolo di terra, o meglio di ghiaccio, l’uomo spesso è alle prese con una lotta impari: nonostante mesi di buio, a seconda della stagione, e temperature assideranti, porta in questo luogo calore, luce e acqua confrontandosi con l’inospitalità di un ambiente decisamente avverso. Eppure Luciano ne è affascinato.

«Lavoravo già da anni per la Snam, in Iraq e Algeria, quando mi proposero la costruzione di una base italiana di ricerca in Antartide. Accettai l’incarico, con spirito d’avventura e curiosità, passando dai +50 gradi dell’Iraq ai –50 dell’Antartide. Per la prima volta vidi cose mai viste e mai pensate: mare forza 10, onde giganti, i primi ghiacci all’avvicinarsi del 60º parallelo, poi iceberg, pinguini e balene. Un paesaggio meraviglioso. Ho partecipato a ben ventiquattro spedizioni, l’ultima conclusasi a febbraio 2014. Chissà se, in futuro, l’attraverserò ancora, visto che, in questi ultimi anni, ho dedicato le mie energie ad avviare e formare dei giovani per questa attività. Mi sento legato a questi luoghi come se fossero il mio secondo Paese natale. È un luogo dove l’ambiente è affascinante, vario e unico». Lo incontriamo di ritorno in Italia.

Msa. Come si proteggeva in uscita?
Sartori. Per i lavori all’esterno indossavamo una tuta speciale con cappello rosso. Sembravamo in divisa, ma ci riparava bene. All’interno l’ambiente era climatizzato e coibentato, si stava anche in maniche corte. Difficoltà ne ho incontrate tante. Tra tutte, ricordo quella volta in cui ho dovuto pernottare sul Platon Antartico (è la seconda base del nostro gruppo), a causa di un’avaria a un mezzo, fino all’arrivo dei soccorsi. Due notti e due giorni a una temperatura costante di –50. Ma non è il «minimo massimo». Sempre al Platon Antartico, per esempio, dove abbiamo perforato il ghiaccio fino a una profondità di 3.268 metri, la temperatura minima registrata tre anni fa, durante l’inverno, è stata di di – 87,8° C.

In cosa consiste il suo lavoro?
Mi occupo degli aspetti tecnico-logistici, di supporto al personale scientifico. Contribuisco alla manutenzione della pista di atterraggio sul mare ghiacciato. Ho avuto l’onore di conoscere tanta gente. I momenti di relax li trascorrevamo nel «pinguinattolo» una capanna costruita all’esterno della base per stare in compagnia di tanti amici che arrivavano da tutto il mondo. Il mio compito era quello di preparare la grigliata, purché non nevicasse o tirasse vento catabatico.

Come comunicava con casa?
All’inizio, per il costo elevato, chiamavo ogni dieci giorni. Nell’ultima spedizione potevo farlo più spesso tramite l’antenna satellitare o utilizzando la video chiamata con Skype. Non finirò mai di ringraziare mia moglie per il supporto e per i sacrifici fatti quando, da sola, nei mesi invernali, accudiva ed educava i nostri figli. In futuro spero di attraversare di nuovo il Circolo Polare Artico. Questa volta in compagnia dei giovani che ho preparato.

 
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017