Italia solidale

Prende avvio una serie di articoli che aiuterà a tracciare l’identikit del volontariato italiano: un puzzle composito che svela tratti comuni e suscita domande nuove.
29 Dicembre 2009 | di

Sempre più locale, sempre meno globale. Più anziano e più qualificato. Meno emozionato e più ragionato. Dalle periferie delle città alle corsie di ospedale, dalle emergenze terremoto alla risposta alle nuove solitudini, l’identikit del volontariato italiano rimanda a un puzzle composito, che da Nord a Sud svela tratti comuni e suscita domande nuove.
«È un fenomeno sempre piuttosto attivo – spiega Renato Frisanco, ricercatore della Fondazione Roma per il terzo settore (ex Fivol) –. Nel Nord ovest, dove è ormai maturo, ha rallentato la sua corsa, mentre è ancora abbastanza vivace al Sud, dove però soffre di maggiori problemi rispetto sia al rapporto con il pubblico che alla capacità delle comunità locali di sostenerlo adeguatamente».
Un volontariato dai capelli brizzolati, se non bianchi, che ha la sua fascia più cospicua tra i 45 e i 65 anni, dove le donne fanno la parte del leone per quanto riguarda i ranghi bassi e intermedi e sono raramente ai vertici delle organizzazioni. Un volontariato maturo, che «crescendo si è spalmato su tutte le aree del sociale», sostiene Frisanco. Prima l’attenzione era più rivolta all’assistenza e all’advocacy, ovvero le campagne sociali che mirano a un cambiamento di opinione. Ora, invece, i settori interessati si sono ampliati al bene comune in senso più generale: ambiente, educazione permanente, beni culturali, sport per soggetti a rischio, problemi di comunità. Il sociologo distingue tra organizzazioni di welfare e di partecipazione civile, che «sono gruppi meno connessi a reti nazionali già esistenti, cittadini che si attivano, si fanno carico della qualità della vita anche con molta creatività e sono radicati nel territorio».
Un volontariato che, dice il Censis, si rivela risposta efficace alle solitudini urbane. Affermazione condivisa da monsignor Giovanni Nervo, primo presidente della Caritas italiana e presidente onorario della Fondazione Zancan, il quale individua le maggiori emergenze attuali nella «povertà delle famiglie, educazione dei giovani e immigrazione». Rispetto al bisogno, il sacerdote precisa la qualità del rapporto che deve esserci tra volontariato e istituzione: «Il volontariato risponde ai bisogni emergenti, ad esempio il terremoto o un’alluvione. Invece l’anticipare i bisogni mediante la prevenzione è compito delle istituzioni, con cui il volontariato deve collaborare». E oggi la prevenzione «riguarda particolarmente la salute, la devianza giovanile, il degrado dell’ambiente».


Deficit politico

Se in passato però lo slogan «pensare globalmente agire localmente» significava mettere ali alle buone pratiche in vista di un cambiamento di prospettiva generale, oggi, secondo quanto rilevano gli esperti, il volontariato registra un «deficit politico», perché rischia di concentrarsi nel proprio orticello, nel frammento di impegno: «C’è la tendenza a specializzarsi, ma il punto è che i bisogni sono concatenati, non specializzati, e bisogna averne una visione orizzontale. Occorre non solo mission ma anche vision dei problemi, per farsi carico della comunità e trainare le politiche verso obiettivi di maggiore giustizia sociale, di modifica dell’assetto dei servizi», sostiene Renato Frisanco.

In questi anni sotto la categoria volontariato si è fatto passare un po’ di tutto, dalla cooperativa sociale all’ente no profit. Su questo monsignor Nervo non ha dubbi: i tratti caratteristici del volontariato sono «la spontaneità e la gratuità. Un’azione, un’attività, se non è libera, spontanea e gratuita, può essere una buona azione, ma non è volontariato. Sul piano giuridico lo richiede e lo precisa la legge quadro sul volontariato 266/1991. È ammesso il rimborso delle spese realmente sostenute. I rimborsi però a forfait, magari gonfiati, diventano facilmente lavoro nero». Anche Frisanco fa riferimento alla legge 266: «Ci sono due tipi di organizzazioni: quelle che realizzano attività di utilità sociale e quelle che fanno volontariato. Per noi sono organizzazioni di volontariato quelle che rispondono al principio della legge 266: gratuità, solidarietà, democrazia. Nelle organizzazioni di utilità sociale, invece, c’è di tutto». Per intenderci: la Fondazione Roma esclude dalla sua banca dati le organizzazioni dei parroci o le Caritas, perché non hanno requisiti di democraticità, ma anche i centri sociali autogestiti dagli anziani, perché mancano del requisito di solidarietà, salvo che non facciano anche cose per terzi. Sono esclusi anche tutti i gruppi di protezione civile o i vigili del fuoco volontari, perché hanno tutte le coperture in caso di intervento.
È interessante notare che alla domanda su quale sia la parola chiave con cui i volontari interpellati da Fondazione Roma si identificano, la risposta più frequente è «solidarietà», poi «utilità sociale» (un valore trasversale al terzo settore), quindi «no profit», e alla fine «gratuità e partecipazione». «Si è perso di vista il significato della gratuità – sottolinea Frisanco –. È come se fosse scontata, ma non lo è: infatti il 25 per cento delle organizzazioni iscritte all’albo del volontariato difetta proprio su questo punto, perché il 7 per cento dà rimborsi forfettari come modo per fidelizzare, il 16 per cento si fa pagare qualcosa dagli utenti, e per l’8,5 per cento la quota delle persone remunerate è uguale o supera quella dei volontari».
Negli anni molte associazioni nate come volontariato «puro» sono cresciute, il loro servizio è finito dentro la programmazione pubblica e oggi «chi viene a determinare le finalità dell’associazione non sono più i volontari ma i manager, persone retribuite. Quando le associazioni si vanno aziendalizzando fanno un cambio di passo e tendono a perdere volontari, i quali non si riconoscono più negli obiettivi» spiega ancora Frisanco.


Più difficile che in passato

D’altra parte oggi fare volontariato è più difficile che in passato: la ricerca della Fondazione Roma parla di un assottigliamento delle organizzazioni (da un numero medio di 33 persone nel ’97 a circa 28 nel 2006), e dice che farsi carico con responsabilità e continuità dell’organizzazione richiede una capacità di gestire, un impegno e una professionalità maggiore, difficil da reclutare senza poi offrire una remunerazione in cambio. Le stesse organizzazioni sanno che, anche per vincere un progetto e avere finanziamenti dall’ente locale, devono garantire qualità: non c’è spazio per il pressappochismo. Insomma, fare il volontario è più impegnativo di ieri e occorre avere motivazioni complesse: «Non basta una spinta altruistica, una testimonianza di fede, ma occorre un’istanza partecipativa e valoriale» che include, soprattutto tra i giovani, l’idea di una realizzazione personale, come spazio di autogratificazione.
Nel corso del 2009 la Fondazione Zancan ha diffuso i primi dati della ricerca sul «Futuro del volontariato in Italia», evidenziando che oggi le principali difficoltà rilevate dalle associazioni sono in relazione al coinvolgimento dei giovani, al rapporto non facile con le istituzioni e allo scarso lavoro in rete. «I giovani, per attivarsi, hanno bisogno di fiducia e di protagonismo – commenta monsignor Nervo –. Per il rapporto con le istituzioni e per il problema di rete c’è un’esigenza di fondo: mettere al centro le persone e i loro bisogni, non l’interesse o il prestigio dell’istituzione o dell’associazione di volontariato. Se si fa questo, il rapporto con le istituzioni diventa naturale e collaborare in rete diviene una necessità». «Anche perché – aggiunge Frisanco – tante piccole organizzazioni, anche molto attive, se non si coordinano perdono capacità e forza d’urto».

Una buona strada per rispondere a quest’ultima carenza viene però da un altro tratto, nuovo, che il volontariato ha sviluppato in questi anni: l’interesse crescente a comunicare e fare informazione. Se in passato, infatti, ci si affidava ai mass media, ora c’è la tendenza ad autoprodurre comunicazione: pagine dedicate, bollettini, riviste e siti web. E chi è capace di comunicare e dire cosa fa, riesce anche ad avere più volontari e meno problemi di turn over.



Glossario. Le parole del terzo settore


- Terzo settore: è il complesso di istituzioni che nel sistema economico si collocano tra lo stato e il mercato, non essendo riconducibili né all’uno né all’altro (da cui «terzo»). Questi enti sono di natura privata, senza fini di lucro, volti alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva.


- No profit: questa definizione coincide con quella di terzo settore, anche se la questione è dibattuta. Tale dicitura sottolinea che l’organizzazione in questione, dal momento che non è destinata a realizzare profitti, reinveste gli utili interamente per scopi organizzativi.


- Associazione di volontariato: è quell’organismo che, in modo determinante e prevalente, si avvale delle prestazioni volontarie e gratuite dei propri aderenti. È esclusa ogni forma di beneficio, economico e non economico, anche indiretto. L’unico fine è la solidarietà, come riportato nella legge 266/91 che disciplina il settore. Nello statuto deve essere indicata in maniera esplicita: l’assenza di fini di lucro; la democraticità della struttura; l’elettività e la gratuità delle cariche associative; obblighi, diritti, criteri di ammissione e di esclusione degli aderenti.


- Associazione di promozione sociale: la dicitura è stata introdotta dalla legge 383/2000, e riguarda movimenti, gruppi o coordinamenti che svolgono attività di utilità sociale a favore dei soci o di terzi, senza finalità di lucro. Si avvalgono prevalentemente dell’opera di volontari, ma a differenza delle associazioni di volontariato possono anche avere dipendenti retribuiti e promuovere attività commerciali, purché queste siano svolte in modo sussidiario e per raggiungere gli obiettivi istituzionali.


- Ong: significa «organizzazione non governativa». Indica una realtà associativa, anche internazionale, impegnata, senza fini di lucro, nel settore della solidarietà sociale e della cooperazione allo sviluppo. Non sono enti istituzionali e quindi sono indipendenti da indirizzi politici governativi.


- Cooperativa sociale: è un’impresa senza finalità di lucro che si costituisce con lo scopo di «perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini» (legge 381/91).


- Cooperativa sociale di tipo A: gestisce servizi socio-sanitari ed educativi.


- Cooperativa sociale di tipo B: svolge attività produttive finalizzate all’inserimento nel mondo del lavoro dei cosiddetti soggetti svantaggiati.


- Onlus: sta per «organizzazione non lucrativa di utilità sociale». Di questo titolo si fregiano associazioni, comitati, fondazioni, società cooperative e altri enti di carattere privato, che svolgano attività nei settori dell’assistenza, beneficenza, istruzione, ricerca, tutela naturalistica e dell’ambiente, cultura, arte, sport. Gli utili o gli avanzi di gestione non possono venire distribuiti, ma devono essere investiti nelle attività dell’ente. In caso di scioglimento, il patrimonio dell’organizzazione deve essere devoluto ad altre onlus o a fini di pubblica utilità.


- Fondazione: ente senza fini di profitto creato per sostenere attività sociali, educative, filantropiche, religiose, scientifiche e culturali. In Italia sono due le tipologie operanti: fondazioni operative e fondazioni erogatrici. Le prime perseguono i loro obiettivi con una attività propria; le altre devolvendo contributi finanziari per attività ritenute meritevoli.

(A.F.)
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017