Italian Globetrotters
In vista dell’imminente 1° Conferenza dei giovani italiani nel mondo, abbiamo coinvolto padre Lorenzo Prencipe, scalabriniano, direttore del Centro Studi Emigrazione, CSER, di Roma, su un tema di grande attualità.
Segafreddo. La mobilità è uno dei fenomeni emergenti che coinvolge, in modo particolare, le nuove generazioni. Può rivelarci qualche dato su questi nuovi esodi dei giovani italiani e dei loro coetanei residenti all’estero?
Prencipe. Possiamo fare una breve premessa un po’ più ampia rispetto alla situazione italiana. Quando parliamo di nuove forme di mobilità giovanile, pensiamo soprattutto alle migrazioni qualificate di professionisti, alla presenza di studenti stranieri nelle università estere, agli stage, e alle esperienze internazionali effettuate e realizzate da molti giovani. Tutti i Paesi sviluppati sono in competizione tra loro per attrarre la maggiore quantità possibile di giovani qualificati, soprattutto ingegneri del settore informatico, ma anche personale medico, infermieri e tecnici. Oggi dobbiamo considerare che nel mondo ci sono 25 milioni di persone altamente qualificate con più di 25 anni nei Paesi dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che raggruppa la maggioranza dei Paesi industrializzati. Il 56% di queste persone altamente qualificate, presenti nei Paesi OCSE, sono originarie dei Paesi in via di sviluppo, ed è uno degli aspetti che non dobbiamo dimenticare. La mobilità giovanile qualificata, infatti, aumenta da un lato la potenzialità dei Paesi più sviluppati ma nello stesso tempo aumenta la possibilità di una perdita di risorse umane da parte dei Paesi di provenienza, specialmente quelli meno sviluppati.
Basti pensare che il 50% di cittadini laureati di Paesi dell’Africa e dei Caraibi vive e lavora nei Paesi sviluppati dell’OCSE. Inoltre il 23% dei medici formati nell’Africa Subsahariana si sono stabiliti nei Paesi dell’OCSE, e anche il 20% degli infermieri e delle ostetriche. Questo solo per avere un quadro un po’ più problematico di quella che è la mobilità internazionale, le nuove forme di mobilità qualificate. A livello sempre generale, un’altra considerazione che bisogna fare, è che la politica di selezione professionale comincia con il favorire l’inserimento di studenti stranieri nelle università. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto quasi il 45% di aumento di studenti che svolgono i corsi universitari all’estero. Oggi sono più di 2 milioni 600 mila, e sono presenti soprattutto negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, nel Regno Unito, in Australia e in Canada. E anche in questo caso il 55% degli emigrati di America Latina e Carabi, e il 40% di quelli di Cina e India hanno ottenuto i loro diplomi universitari dagli Stati Uniti. Quindi questa nuova mobilità qualificata e «studentesca» sta un po’ rivoluzionando il quadro dei rapporti di forza tra i Paesi più sviluppati e quelli meno sviluppati.
Chi sono questi giovani italiani e oriundi «in mobilità». E quali sono le loro aspettative?
Anche l’Italia, nell’ultimo decennio, si confronta con questo fenomeno caratteristico della globalizzazione, che possiamo definire come mobilità transnazionale, che coinvolge soggetti in possesso di professionalità e qualifica. Il nuovo volto dell’emigrazione che interessa l’Italia, sia in partenza che in arrivo, da parte dei numerosi giovani d’origine italiana provenienti dai tradizionali Paesi d’emigrazione specialmente dall’America latina, è giovanile e qualificata. Infatti, tra i Paesi dell’OCSE, l’ Italia è una delle nazioni che ha il più alto numero di studenti che frequentano l’università in altri Paesi.
Gli studenti italiani iscritti nelle università all’estero, arrivano quasi a 50 mila, e il numero crescerebbe ancora se considerassimo gli studenti che vanno all’estero per studiare le lingue. A muoversi, inoltre, sono anche gli studenti per master o per ricerche professionali. Londra, per esempio, è una delle città più gettonate per queste esperienze, e le altre mete preferite dagli universitari italiani sono: Germania, Austria, Gran Bretagna, Francia e Svizzera. Questo è un primo blocco di soggetti italiani che approfittano di questa mobilità transnazionale; il secondo blocco è dato dai 40 mila italiani che noi classifichiamo come già laureati e presenti all’estero. Negli ultimi dieci anni, circa 3 mila laureati all’anno hanno lasciato l’Italia: gli uomini sono circa il doppio delle donne, e la componente settentrionale è ancora maggioritaria – circa il 60% – anche se cresce ultimamente il numero di laureati italiani meridionali che vanno verso l’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti, la Svizzera. Quindi, diversamente dagli studenti che preferiscono più Paesi europei per terminare i loro studi, i laureati preferiscono essenzialmente Paesi non europei. Per quali motivi? In genere i motivi di partenza sono quasi sempre riconducibili alle difficoltà che questi laureati provano nell’accesso e nella progressione di carriera nel settore scientifico, e quindi è la ricerca di ulteriori e nuove possibili forme di avanzamento e di progressione.
C’è, poi, un altro gruppo di italiani e di oriundi costituito da tecnici specializzati ricercatori che si spostano per occupare posti di rilievo, o da tecnici aziendali che si trasferiscono per brevi periodi nelle strutture delocalizzate. A volte questi italiani od oriundi non conoscono la lingua del posto dove vanno, ma parlano l’inglese. Sono portati a familiarizzare con i colleghi in azienda, e frequentano spesso ambienti lontani dalla popolazione italiana d’emigrazione tradizionale; il che determina una frattura con la «cosiddetta» emigrazione tradizionale. Questi flussi sono destinati ad aumentare perché sono tanti i giovani interessati a fare un’esperienza di lavoro qualificato all’estero. Molti mescolano le motivazioni: si va dalla curiosità, rispetto alle culture, contesti professionali diversi, possibilità di carriera, dalla voglia di avventura e sfida personale, dalla possibilità di trovare strutture e conoscenze più qualificate rispetto al Paese d’origine, oppure dalla semplice voglia di fare un’esperienza all’estero. Normalmente i principali ambienti lavorativi sono quello sanitario, scolastico come mediatori linguistici, nell’edilizia, nell’industria, nella ristorazione e nel turismo. Sempre con queste qualifiche di alto livello. Tutto questo porta a mostrare che anche le persone italiane o d’origine italiana si muovono nell’ambito di questa nuova mobilità transnazionale che interessa tutti i Paesi del mondo.
Quali sono le mete più gettonate: università, centri di ricerca o realtà imprenditoriali e commerciali?
Da parte degli universitari italiani, le mete più gettonate sono i Paesi europei: Germania, Austria, Gran Bretagna, Francia e Svizzera, nell’ordine delle preferenze. Mentre per le persone già formate, e che hanno già una certa professionalità, le mete principali sono l’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti, la Svizzera. Paesi non appartenenti all’Unione europea ma che permettono loro di trovare possibilità maggiori d’inserimento lavorativo. Per quanto riguarda invece i tecnici aziendali o i ricercatori, le destinazioni principali sono attualmente l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina anche perché sta diventando il nuovo Paese di sviluppo e attrazione per queste nuove competenze e qualifiche professionali.
In queste nuove migrazioni di giovani dall’Italia verso l’estero, e dall’estero verso l’Italia, lei vede un’opportunità di rafforzare l’italianità nel mondo?
Dobbiamo cercare di intenderci sulla questione dell’italianità. L’italianità nel mondo è presente anche nella cosiddetta emigrazione tradizionale che attualmente rivela un certo invecchiamento della popolazione, una maggiore dispersione geografica, una diminuzione di espatri e rientri, una certa tendenza a radicarsi nel Paese d’emigrazione tradizionale. Tutto questo rivela e difende l’italianità nel mondo. Allo stesso tempo, però, anche questa nuova mobilità transnazionale è anch’essa un elemento per rafforzare quest’identità in maniera diversa.
Qual è la caratteristica nuova di queste giovani generazioni, sia in partenza dall’ Italia come di quelle, d’origine italiana, che tornano in Italia? È una caratteristica che rinnova il sentimento d’identità etnica e di appartenenza, valorizza la lingua e la cultura italiana in una prospettiva nuova che è la cosiddetta prospettiva interculturale. Una prospettiva fondata più sulla pluriappartenenza cioè sul fatto di poter condividere, confrontare, dialogare con universi culturali e di vita diversi, piuttosto che su una certa omogeneità identitaria che probabilmente caratterizzava soprattutto l’emigrazione tradizionale che ne faceva dei modelli un po’ «standard» e un po’ statici. Quindi le nuove generazioni di italiani in mobilità che cosa possono dare all’identità italiana? Delle nuove parole chiave di lettura di comprensione che sono: interculturalità, interscambio, dialogo tra Paesi di mobilità, formazione professionale alta, mondo di lavoro sempre più corrispondente a queste qualifiche professionali. Quindi cambia la prospettiva di questa appartenenza identitaria che diventa sempre più aperta e in relazione piuttosto che chiusa in se stessa.
Che bilancio possiamo fare delle politiche dell’Unione europea in questo campo, e cosa resta ancora da fare per adeguare la domanda del mercato del lavoro e della società alle trasformazioni che la globalizzazione impone?
Ci sono alcune considerazioni da fare. La prima un po’ più ampia rispetto all’Unione europea. Per esempio i Paesi dell’Ocse. Questi Paesi hanno sempre presentato la mobilità internazionale qualificata come evento positivo sia per il Paese d’origine che per quello di accoglienza, e nello studiare le politiche per incrementare questi flussi, hanno focalizzato soprattutto le misure tendenti a evitare le discrepanze tra le qualificazioni degli immigrati e le richieste del mercato del lavoro del Paese d’accoglienza. Ovvero hanno tentato di far sì che ogni specialista possa indirizzare la sua eventuale migrazione verso il Paese che ha più bisogno delle sue competenze. Ed è per questo che Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone hanno moltiplicato le disposizioni tendenti a facilitare l’ingresso di persone qualificate sia in maniera temporanea che permanente. Anche l’Unione europea, da questo punto di vista, ha dedicato attenzione alla mobilità internazionale di personale qualificato.
L’Unione europea ha così adottato norme che promuovono e sostengono la mobilità dei ricercatori, dei docenti, degli studenti universitari tra i diversi Paesi membri. Questa mobilità è infatti un mezzo per uniformare ad alto livello la capacità di ricerca e di sviluppo tecnologico delle diverse nazioni dell’Unione, e la possibilità d’integrare e di trovare elementi comuni tra le diverse culture dei Paesi europei.
In che maniera l’Unione europea ha perseguito questo obiettivo?
Con norme e programmi specifici come, per esempio, il Programma Erasmus e Socrates per la mobilità degli studenti universitari, e il Programma Marie Curie per giovani ricercatori all’interno dei Paesi membri. Qual era la grande carenza dei Paesi europei? La possibilità di attrarre giovani ricercatori provenienti da Paesi terzi, quindi non membri dell’Unione europea, fortemente condizionata dalla normativa restrittiva del Trattato di Schengen. Per ovviare a questa carenza dell’Unione europea rispetto agli Stati Uniti e ad altri grandi Paesi d’immigrazione, l’Unione europea ha lanciato la Blue Card, la Carta Azzurra in risposta alla Green Card americana. Con tale documento, che è valido come permesso di soggiorno e di lavoro, l’Unione europea cerca di favorire l’ingresso di lavoratori altamente qualificati. La versione europea della Green Card punta allora ad attirare i professionisti stranieri che preferiscono invece cercare lavoro negli Stati Uniti, in Canada, in Australia per evitare le restrizioni e i controlli, finora numerosi, nei Paesi dell’Unione europea. Per incoraggiare gli ingegneri indiani e i ricercatori cinesi sono previste facilitazioni. I lavoratori in possesso della Blue Card avrebbero anche la libertà di circolazione all’interno degli Stati membri, e potrebbero ricongiungersi più facilmente con i membri delle loro famiglie. Questa è stata la grande misura dell’Unione europea che continua a finanziare, con centinaia di milioni di euro, la creazione di apposite agenzie per l’occupazione giovanile con l’obiettivo di collegare qualifica professionale ed effettiva domanda del mercato del lavoro.
Rimane comunque il grosso problema dell’impoverimento conoscitivo dei Paesi d’origine di queste persone altamente qualificate. Voglio solo ricordare che uno studio del Fondo Monetario Internazionale ha stimato che il trasferimento di risorse dai Paesi in via di sviluppo verso quelli più sviluppati tramite il Brain Drain, la fuga dei cervelli, è valutabile in 13 milioni di dollari, e questo, naturalmente, rappresenta un serio danno per i Paesi d’origine che si vedono impoveriti e ostacolati nel cammino verso un maggiore sviluppo sempre più condiviso dalla loro popolazione.