Italian, please!

Forum con Anna Forte, Giuseppe Tatta, Nicola Patruno, John De Francesco, Roberto Melzi, Donato De Simone, Antonio Colavito, Marino Giancroce.
16 Febbraio 2007 | di

Philadelphia

Insegnanti, imprenditori, medici, liberi professionisti. Il mosaico della presenza italiana in Pennsylvania denota un forte radicamento nella lingua e nella cultura italiana diffuse, sostenute e promosse proprio da persone come queste, impegnate nella vita civile, a scuola e all’università. A Philadelphia e nelle contee vicine abbiamo incontrato alcuni rappresentanti della comunità italiana, tra i più attivi nell’associazionismo.

Anna Forte, sposata, due figli, ha insegnato italiano e spagnolo nelle scuole di Philadelphia per 37 anni. Adesso è in pensione ma ammette di lavorare più di quando insegnava: «L’interesse per la lingua e la cultura italiana è cambiato in meglio – dice con soddisfazione –. Io e mio marito abbiamo fatto molto per promuovere la lingua e la cultura italiana. Nel 1985 abbiamo iniziato l’insegnamento della lingua italiana costituendo una Lodge. Oggi siamo più di duecento: è un bellissimo gruppo di persone, tutte interessate alla lingua e alla cultura italiana».

Il padre di Anna era originario dell’Abruzzo; la madre, invece, napoletana. Il suo interesse per la lingua e la cultura italiana è cresciuto in famiglia. Con il marito parla spesso la nostra lingua. Sua figlia è avvocato, e ha studiato italiano con il professor Frank Salvatore. Il figlio, invece, è oculista, ma non ha studiato l’italiano perché allora non si insegnava nella sua scuola.

«Oggi sono molti gli americani e gli italoamericani che si interessano alla lingua italiana, vanno all’opera, ascoltano concerti – ammette Anna –. E l’interesse sta crescendo di giorno in giorno. Il problema odierno è che non abbiamo abbastanza docenti per far fronte alla richiesta d’insegnamento. Ogni settimana le scuole mi telefonano per chiedere docenti. Questo succede perché le Università non si interessano a fare formazione e a preparare docenti che insegnino la lingua italiana».

Giuseppe Tatta è nato in Italia, a Toro, in provincia di Campobasso. È arrivato negli Stati Uniti all’età di 13 anni. Ha insegnato Storia e Italiano. Un’attività che continua anche se è in pensione da undici anni. «Da otto anni – dice – faccio parte di un Circolo indipendente, fuori Philadelphia. Noi sentiamo ancora la passione e l’orgoglio della nostra terra natía. Anche se insegnavo Storia americana e Storia antica, ho sempre cercato di promuovere la lingua e la cultura italiana presso gli italo-americani perché tutti gli italiani, specialmente quelli che sono nati in Italia, anche se sono venuti in America, sono sempre stati orgogliosi di essere italiani. Siamo stati “ambasciatori dell’Italia”. Purtroppo, all’inizio, gli italiani non erano apprezzati e non avevano una buona fama. Arrivavano qui per ragioni puramente economiche: facevano i muratori, i falegnami, i contadini. E la gente li vedeva come persone non istruite. Eppure la nostra cultura era ed è ricca di storia, che l’Italia vanta i più grandi pittori, scultori, musicisti del mondo. Purtroppo nei Licei e nelle Università non si studia più storia come una volta, e così i giovani non sanno com’è ricca la storia dell’Italia. Se i ragazzi americani studiassero la storia, saprebbero chi è Dante, Galileo, Leonardo. Se uno domanda ai ragazzi chi sono questi personaggi, loro non sanno rispondere».

Nicola Patruno, è docente di Lingua e Letteratura italiana all’Università di Bryn Mawre. Vive negli Stati Uniti dal 1954. Arrivò qui a bordo della stessa nave sulla quale viaggiava l’attrice Katherine Hepburne, che aveva appena finito di girare un film a Venezia. Il professor Patruno – tra i più raffinati studiosi americani di Primo Levi, su cui ha pubblicato diversi studi, e anche di Giovanni Verga –, ritiene che l’interesse per la lingua e la letteratura italiana sia ancora vivo, e che sia associato pure all’interesse per la storia dell’arte. «Tra le lingue romanze – rammenta –, l’italiano fa concorrenza al francese. Lo spagnolo è più diffuso anche per ragioni di immigrazione. Il fatto che si studi l’italiano negli Stati Uniti, significa che l’interesse per l’Italia esiste tutt’oggi sia da parte degli studenti d’origine italiana che di coloro che vedono nell’Italia qualcosa di diverso è di molto interessante».

Patruno è specializzato nella letteratura italiana del XIX e XX secolo. «Oggi in America – afferma – tra gli autori italiani più letti, troviamo Primo Levi, Italo Calvino, Umberto Eco e Dacia Maraini», frutto anche di una riscoperta della lingua italiana.

«I figli degli italiani che sono venuti in America dopo gli anni Sessanta, che non sono emigrati solo per fame e non volevano essere americani a tutti i costi, studiano l’italiano – gli fa eco il professor John De Francesco, nato negli Stati Uniti ma di origine abruzzese –. Adesso, la seconda e terza generazione vuole riappropriarsi delle radici culturali, e studia l’italiano. Negli anni Sessanta e Settanta, trovare studenti di italiano era difficilissimo. Quando ho terminato l’insegnamento, sei anni fa, avevo sette classi di italiano!».

De Francesco, è stato anche presidente dell’AATI, l’Associazione americana degli insegnanti di italiano. «Io insegnavo anche francese e spagnolo. Ma per me l’italiano era valido tanto quanto il francese, il tedesco e lo spagnolo. Così ho iniziato a suggerire agli studenti di provare a studiare l’italiano. Questi lo proponevano agli amici, e così si spargeva la voce. Oggi la maggior parte di coloro che studiano l’italiano sono giovani che hanno nonni e bisnonni d’origine italiana.

«Peccato che nello studio della letteratura ho pochi studenti perché credono che basti saper parlare la lingua. Non si rendono conto che occorre conoscere anche la letteratura per saper parlare bene la lingua. La nostra lingua è dappertutto: nell’arte, nella musica, nella cucina, nella moda, nel cinema. Se uno legge le riviste, quasi tutti gli avvisi sono in italiano: sono tutte aziende che fanno business con l’America e viceversa».

Roberto Melzi, professore universitario, celebre autore dell’omonimo dizionario, è nato in Italia ed è approdato negli Stati Uniti con la sua famiglia. «Molti nostri studenti sono italo-americani, e solo perché hanno sentito parlare un po’ di napoletano o abruzzese dalla nonna, credono di sapere l’italiano. È difficile svezzarli di nuovo. Quando arrivi ad insegnare loro la letteratura, allora si innamorano. Quello che è difficile da insegnare è la lingua. Tra gli autori italiani, oggi Alberto Moravia attrae sicuramente più di Boccaccio. E poi Dante è sempre molto apprezzato: il canto dell’Inferno piace tantissimo agli studenti americani. Purgatorio e Paradiso, invece, interessano poco perché gli americani non hanno il concetto di spiritualità.

Ma al di là della lingua, il professor Melzi vede un ruolo politico per l’Italia sullo scenario internazionale contemporaneo anche in virtù del sedimentarsi di civiltà e culture diverse nel suo dna: «Gli italiani sono gli unici in tutto il mondo che hanno cervello e cuore, gli altri o hanno il cervello oppure hanno il cuore – chiosa il professor Melzi –. Sono un popolo “stranissimo”, forse il popolo più civile del mondo, probabilmente perché tante civiltà hanno lasciato il meglio della loro impronta nella storia d’Italia».

Il professor Donato De Simone vanta un curriculum molto eclettico: insegnante, chimico, scrittore. Appena arrivato negli Stati Uniti, nel 1947, aveva poco più di 15 anni. A causa di problemi familiari, dovette abbandonare gli studi universitari di Medicina. Ma trovò subito lavoro in un’azienda farmaceutica. Dopo il servizio militare nei Marines, De Simone iniziò a lavorare in un laboratorio, e a frequentare l’Università serale. Alla fine si laureò, e si rese conto ben presto di aver portato con sé un bagaglio enorme di esperienze e conoscenze. Nel frattempo aveva imparato cinque lingue: oltre all’italiano anche il latino, il francese, l’inglese e lo spagnolo. E così ben presto diventò insegnante universitario. «In Italia avevo studiato l’Eneide, l’Odissea, l’Iliade, le Metamorfosi, ecc. – ricorda De Simone –. Dovevo insegnare mitologia: i miei colleghi non sapevano nulla sull’argomento». Adesso De Simone si è dato all’attività editoriale. Scrive libri. Ma lamenta che «gli studenti non hanno più quella curiosità intellettuale necessaria per entrare in una Università e trarne il meglio. Pretendono il diploma e di guadagnare molto e subito».

Antonio Colavito, sposato, quattro figlie, due nipoti, da trent’anni fa il medico a Philadelphia. È nato a Campobasso, in Molise. È emigrato all’età di 11 anni. Negli Stati Uniti si è laureato in Scienze Biologiche e poi ha continuato a fare Medicina a Bologna, in Italia, prima di tornare ad esercitare a Philadelphia.

«Benché gli italiani risiedano qui, si interessano eccome all’Italia – ricorda Colavito –: molti hanno proprietà, case, genitori, parenti, amici. Parecchi hanno riacquisito la cittadinanza italiana. E con il voto agli italiani all’estero, ora si può partecipare alla vita politica. Io ho fatto parte del Comites. Sono stato anche presidente dell’Alleanza delle Associazioni Italo-Americane per coordinare le varie associazioni».

Quel che Colavito migliorerebbe dell’Italia è la nostra burocrazia: documenti, permessi, ecc. «Negli Stati Uniti – dice – tutto è molto più snello e veloce. In Italia, le procedure sono molto più lunghe, la burocrazia è lenta, c’è troppa modulistica. In America, se uno vuole aprire un’attività o avere una licenza, può farlo tranquillamente. In Italia, invece, tutto è più macchinoso e complicato».

Marino Giancroce – imprenditore, sposato, due figli che parlano italiano – è originario della provincia di Teramo, in Abruzzo. Arrivò negli Stati Uniti all’età di 13 anni. «Dopo due anni di università – ricorda – mi sono messo a lavorare in proprio nel campo della ristorazione». Per sei anni, Giancroce è stato presidente regionale dell’Associazione Abruzzesi: un sodalizio che esiste da quindici anni. «Ho sempre cercato di mantenere le nostre tradizioni – afferma – e di insegnare ai nostri bambini la lingua italiana in modo tale che quando vanno in Italia possono farsi capire mentre qui in America possono parlarla con i loro amici italiani. Nella zona di Chester vivono circa 10 mila tra italiani e italo-americani».

Per quanto concerne la frammentazione dell’associazionismo italiano, Giancroce sostiene che «sarebbe meglio avere un’unica organizzazione piuttosto che molti sodalizi di ogni paese o regione d’Italia. I nostri bisnonni e nonni quando vennero qui, si formarono subito il loro gruppo, e adesso è difficile cambiare le cose. Se si fossero messi subito insieme, tutti gli italiani sarebbero diventati molto più forti, e avrebbero molto più peso negli Stati Uniti dove si sta bene economicamente – conclude Giancroce – anche se, per il resto, si vive meglio in Italia».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017