Italiani di frontiera

Imprenditori, scienziati, innovatori. Nati e cresciuti in Italia, ma pur di realizzare i propri sogni hanno varcato l’Oceano. Per raccogliere le loro storie, un giornalista si è trasferito per 6 mesi nel cuore della Silicon Valley con moglie e figli.
18 Settembre 2015 | di
«Non andare dove sembra portare la strada. Va’ invece dove non c’è strada e traccia un sentiero» ha scritto il poeta Ralph Waldo Emerson. E chi mai pensava di cambiar vita? Volevamo fare solo un’«esperienza di famiglia» negli Stati Uniti, trasferendoci qualche anno fa, per sei mesi, da Sesto San Giovanni (Milano) in California e facendo tutto da soli, grazie a Internet. In aspettativa io, giornalista di un’agenzia internazionale e mia moglie Pola, insegnante di Scienze; i figli Alessandro e Francesca, oggi laureati, all’epoca studenti liceali, trapiantati per un semestre alla Gunn High School, tra compagni di scuola da tutto il mondo.

Ne è uscita invece un’esperienza… di non ritorno. Siamo tornati, in realtà, ma profondamente cambiati. E per me è stato l’inizio di un percorso professionale nuovo. Più giornalista oggi, che racconto online (www.italianidifrontiera.com) e in grandi eventi questa avventura con formati multimediali (da qualche mese pure in un libro che ha la prefazione di Gian Antonio Stella), rispetto a quando stavo in redazione…

Quei sei mesi trascorsi a Palo Alto, nel cuore della Silicon Valley, culla mondiale dell’innovazione, sono diventati un affascinante viaggio nel talento italiano. Senza immaginare cosa ne sarebbe scaturito, avevo deciso di andare a intervistare molti degli italiani che in quella parte della Baia di San Francisco hanno avuto successo, come imprenditori, scienziati, innovatori. «Italiani di frontiera» è il nome del mio progetto, e mai mi sarei aspettato che mi avrebbe aiutato anche a capire il paradosso dell’Italia, fucina di talento che spinge molti dei migliori a cercare di realizzarlo altrove.

Tessitori di arte e scienza
Che cos’è questo talento? Renzo Piano, star mondiale dell’architettura, dice che i giovani devono partire e poi tornare, partire per conoscere il resto del mondo, ma soprattutto se stessi. Capire cioè che, per la profondità della nostra storia e cultura, noi italiani abbiamo davvero qualcosa di speciale: la capacità di combinare competenze diverse, tessere arte e scienza assieme, che è quel che ci vuole oggi per affrontare la complessità di un mondo in cambiamento.

Così, quando Luca Prasso, pioniere della grafica digitale, mi ha raccontato del suo arrivo alla DreamWorks, leggendaria casa californiana di produzione di film di animazione, mi sono accorto che coincideva con quanto Cesare Marino, antropologo tra i maggiori esperti mondiali di nativi americani, mi aveva detto del suo ingresso allo Smithsonian Institution a Washington. C’è qualcosa di più lontano da grafica digitale e antropologia? Eppure l’impatto era stato simile: l’occasione della vita nel «tempio mondiale» del proprio campo, la scoperta di dover competere per quel posto con i maggiori esperti internazionali di quel settore, la convinzione di non avere nessuna possibilità… e invece la repentina scoperta del contrario.

Tutti e due, proprio per la capacità di abbinare competenze e conoscenze diverse, avevano presto capito di avere qualcosa in più e non in meno, rispetto ai super specialisti. Fantasia e versatilità sono stati alla base del loro successo professionale. Con in più un debito nei confronti della famiglia. Luca non avrebbe fatto quella strada, se i genitori non gli avessero regalato da ragazzo una cinepresa in grado di produrre a passo lento disegni animati. Cesare ha ritrovato negli indiani d’America quei valori profondi di amore per la natura e la spiritualità ereditati dal padre medico. E oggi, diventato da poco nonno, Cesare può insegnare alla nipotina quel che dagli indiani ha imparato. Mentre Luca ha addirittura fondato una startup sulla voglia di abbinare competenze tecniche e ruolo di padre. Si chiama Curious Hat e mira a far interagire i bambini col mondo reale, i colori, i materiali e i suoni, attraverso il tablet. E i suoi figli sono i primi a testarne i prodotti…

Anche Loris Degioanni, che qualche anno fa ha ceduto, alla multinazionale Riverbed, la sua azienda di software avviata quando era ancora studente, è convinto che determinazione, coraggio e voglia di rischiare, ingredienti indispensabili per un imprenditore di successo, li ha ereditati dal padre, che sin da bambino non lo portava allo stadio ma in montagna a scalare. E il suo arrivo in California era stato propiziato da un «padre spirituale», Silvano Gai, già docente sin da giovanissimo al Politecnico di Torino, poi manager Cisco e imprenditore nella Silicon Valley. Lui e la moglie Antonella Caporello sono stati davvero «genitori adottivi» per decine di studenti che dal Politecnico hanno tentato con successo l’avventura professionale a San Francisco e dintorni.

Padri ispiratori, figli ispirati: non c’è innovazione, ma nemmeno progresso sociale, senza questo costante scambio di conoscenze e valori. Vincenzo Di Nicola, che meno di due anni fa ha ceduto la sua GoPago (startup specializzata nei pagamenti al telefonino) al colosso Amazon, è andato oltre, tornando in Italia per svilupparvi un’altra startup e condividere la sua esperienza con gli studenti del suo ex liceo a Teramo (che di recente ha portato a incontrare il presidente della Repubblica). Non c’è che dire, Vincenzo è degno erede di suo nonno, emigrante e minatore, che gli aveva insegnato a credere in se stesso e a non lamentarsi mai.

Ingegnere a MobileIron e travolgente «evangelizzatore» dei valori di Silicon Valley, Vittorio Viarengo dice che tutto quel che ha appreso nel marketing lo deve al padre, che era fornaio a Genova. Non a caso, alle competenze nel software egli abbina la cura di un blog di enorme successo: www.vivalafocaccia.com. Vittorio ripete che oggi è fondamentale non solo ispirare i più giovani, ma anche saper imparare da loro col reverse mentoring (facendo i mentori alla rovescia). In altre parole, è importante continuare a seguire e ad ascoltare i ragazzi (prima di tutto i propri figli) per comprendere un futuro che toccherà a loro creare e che noi non possiamo nemmeno immaginare.


Esempi che ispirano
Incontrare gli «Italiani di frontiera» oltreoceano aiuta a capire che, se in patria spesso sprechiamo questo enorme talento, è per modi di pensare che andrebbero spazzati via: temere il rischio, vedere nel cambiamento un pericolo e mai un’opportunità, non saper collaborare e fare squadra, assuefarsi a rivalità e conflitti al punto di gioire del fallimento altrui (io la chiamo «sindrome del Palio di Siena»). Contemporaneamente, sottovalutiamo l’importanza d’ispirare, proprio attraverso le storie. Di oggi ma anche di ieri. Tra quelle sulla frontiera del West, la più toccante ricostruita da Cesare, l’antropologo degli indiani, ha per protagonisti un padre e un figlio. Carlo Gentile, bravo fotografo napoletano nel West, adotta un bimbo indiano riscattandolo dal suo rapitore e facendolo ribattezzare col nome di Carlos Montezuma. Gli insegna a studiare, a capire gli altri, a difendere i propri diritti. Poi le loro strade di separano. E mentre Gentile, stimato innovatore, è perseguitato dalla sfortuna e, tra incidenti e tracolli finanziari, muore nel 1893 considerandosi un fallito, quel figlio di talento diventa una figura storica: primo indiano laureato in Scienze e Medicina, poi pioniere dei diritti civili dei nativi americani. Consapevole di dovere tutto quel che è diventato al suo padre italiano.

E che dire dei sette fratelli friulani che all’inizio del Novecento emigrarono con i genitori in California? Iniziano raccogliendo arance, ma quando uno di loro, talento autodidatta dell’aeronautica, realizza un’elica rivoluzionaria, si trasformano in innovativa impresa di famiglia, con grande successo. Sino a quando uno dei fratelli muore in un collaudo e loro, su invito dei genitori, decidono di chiudere per sempre con gli aerei, convertendo la loro eccezionale abilità nell’idraulica e realizzando impianti di straordinario successo per rifornimenti idrici e irrigazione a Los Angeles. Poi uno dei fratelli ha un figlio nato con un grave handicap, doloroso, che necessita di cure costanti. Decide allora di convertire la tecnologia di famiglia in qualcosa che faccia soffrire meno quel bambino. Figlio che, nonostante abbia vissuto sin da ragazzo su una sedia a rotelle, è felice e oggi, ormai anziano, ha fatto della motivazione e dell’ispirazione il proprio lavoro. Di recente mi ha pure onorato con una lettera di elogi, quando ha scoperto di essere tra i protagonisti di «Italiani di frontiera». Pochi sanno che quel suo nome, simbolo di benessere e di lusso in tutto il mondo, deve il successo a un apparecchio nato dall’idea di un padre italiano per alleviare le sofferenze del figlio. Che si chiama Ken Jacuzzi.
 
IL LIBRO
Roberto Bonzio,
ITALIANI DI FRONTIERA.
Dal West al Web: un’avventura in Silicon Valley

Egea, 176 pagine,
17,50
(disponibile anche in formato e-pub a € 9,99)

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017