Italians? «Noi… not spik Inglisc»

«In Italia i delusi dall’inglese sono quanti i delusi dall’amore» afferma il giornalista Beppe Severgnini. Breve viaggio alla scoperta di un Paese che non va all’estero perché non ama né volare né tanto meno cimentarsi con le lingue.
26 Maggio 2011 | di

Valigia in mano, imman­cabili occhiali scuri, golfino annodato in vita e macchina fotografica appesa al collo. Sono almeno trenta milioni gli italiani che, durante l’estate 2011, si allontaneranno da casa per un periodo di vacanza. Secondo l’indagine di Trademark Italia, sulla base del sondaggio Ipsos Observer svolto a marzo scorso, gli italiani per nessuna ragione hanno intenzione di rinunciare alle loro ferie. Un’indagine che ci rivela come anche gusti e desideri rimangano, in fondo, gli stessi di sempre: vacanze vicine, possibilmente in automobile, dove vanno gli amici e per non più di una settimana che dovrà essere tranquilla e senza sorprese. Vacanze all’estero? Meglio di no.

E comunque solo per pochi. Anche se, complessivamente, l’interesse è cresciuto: il desiderio di vacanze oltreconfine, infatti, è di 2,5 volte superiore al dato 2001. Ma, di fatto, a trascorrere le vacanze fuori Italia nei prossimi mesi sarà non più del 19 per cento, pari a 4,8 milioni di italiani, anziché il 16 per cento del 2001 e il 17,8 per cento del 2010. I motivi? Siamo pigri, conservatori, ma, soprattutto, «non parliamo le lingue straniere». Infatti, la prima ragione per cui non andiamo in vacanza all’estero, è proprio questa: non conosciamo le lingue, a cominciare dall’inglese. E così, volendo essere autonomi e indipendenti, dovremmo viaggiare oltreconfine solo in gruppi organizzati, ma anche questa è una modalità che non ci piace. La seconda ragione è che non amiamo gli imprevisti, tanto meno durante le ferie; quindi, non ci adattiamo a usanze e modi di mangiare diversi e, soprattutto, detestiamo volare. La statistica varia, ovviamente, per classi di età. L’eccezione alla regola è rappresentata da giovani e giovanissimi che prediligono, invece, proprio la vacanza all’estero, conoscono bene una lingua straniera, inglese su tutte, e sono già stati in altri Pae­si per vacanze-studio.
 
Corsi e lezioni per tutti i gusti
 Nel frattempo, per tanti connazionali è già cominciata la ricerca frenetica di corsi più o meno intensivi, e strumenti didattici tra i più svariati, da dvd a cd a lezioni multimediali, che consentano di imparare una lingua nel più breve tempo possibile. Le città sono tappezzate di cartelloni pubblicitari in cui, tra le «offerte del mese», oltre al maxifustino del detersivo o alla scorta di pasta, vengono proposti corsi di lingua. «Sta arrivando la bella stagione, è il momento di pensare in grande! Dove vorresti andare quest’estate? Con l’inglese giusto non avrai confini» recita una tra le tante pubblicità. Abbiamo svolto una sorta di indagine telefonica per capire come si muove il mercato e quanto costa imparare una lingua quel tanto che basta per riuscire a fare il check in all’aeroporto, non perdere il ticket, fare i conti con il jet-lag e, soprattutto per le signore che entrano nei negozi, distinguere tra body (corpo) e leotard o capsuit (indumento femminile).

Le lezioni private sono una vera e propria giungla: variano da un minimo di 15 euro l’ora a un massimo di 60; per un corso di 100 ore si va dai 1.500 ai 6 mila euro; un’ora di lezione, nell’ambito di un corso svolto nelle scuole a pagamento, può costare da 8 a 20 euro, per un to­tale, se il corso è sempre di 100 ore, di 800 euro fino a un massimo di 2 mila euro. Ci sono poi corsi «intensivi» on line – che non rilasciano certificazioni e la cui attendibilità va di volta in volta vagliata – e altri, infine, che offrono pacchetti scontati al classico 99,9 euro.
Ma davvero si riesce a imparare una lingua in poco tempo? «I cosiddetti crash courses, ossia corsi intensivi utilizzati in genere per “emergenze” linguistiche, proposti in questa stagione – spiega il professor Paolo E. Balboni, docente di Didattica delle lingue straniere moderne e contemporanee all’Università Ca’ Foscari di Venezia – funzionano solo se poi si va nel Paese di cui si è studiata la lingua, altrimenti non rimane nulla. Ad esempio, se si frequenta un corso di 40 ore per due settimane di spagnolo e poi ci si reca in Spagna allora si può imparare abbastanza bene. Insegnare una lingua, così come imparare, ha senso solo se si insegnano, e di conseguenza si imparano, una cultura e una civiltà».
 
Le parole non sono gesti 
Mescolare tra loro le lingue straniere, nel nostro caso inglese e italiano, nelle parole e prima ancora nei gesti, può risultare, talvolta, pericoloso. Se in Inghilterra chiediamo di poter giocare a flipper ci rispondono che questo gioco non esiste. La parola flipper significa unicamente pinna: ecco il perché del nome dato al delfino protagonista di tanti film. Così, se chiediamo il park per un posto auto, a Londra ci indicheranno uno dei numerosi parchi della città e non un car park, l’unico adibito a parcheggiare l’auto. E ancora: se cerchiamo un campeggio evitiamo di chiedere indicazioni per un camping, perché la parola corretta è campsite. Fin qui nulla di grave.

Gli errori possono, però, diventare imperdonabili quando di mezzo ci sono usi, costumi e culture diverse. «Aldilà di conoscenze relative a banalità quotidiane – prosegue il professor Balboni –, se chiediamo cose sbagliate si rischia davvero grosso. Dentro una lingua è racchiusa una quantità straordinaria di rapporti sociali, di valori, a cominciare dal concetto di rispetto, dalla stessa decisione di dare del tu o del lei. Sono tutti aspetti di notevole complessità. Gli errori socio-culturali sono ben più gravi di un congiuntivo mancato. Allo straniero si perdona l’errore linguistico, ma non quello culturale. Noi stessi non siamo consapevoli di quali elementi culturali mettiamo dentro la nostra lingua».
Sbagliare, in molti casi, può significare addirittura offendere. «È più facile di quanto sembri, in particolare con i gesti – prosegue Balboni –. Quando parliamo una lingua straniera e non sappiamo qualche termine, noi italiani di solito ci aiutiamo con le mani. Ma il gesticolare non è sempre uguale. Qualche esempio? Il gesto per chiedere “che diavolo vuoi?” in Italia è molto volgare, in Turchia invece vuol dire “eccellente, questo pasto!”, mentre in arabo significa “basta”. Se a un arabo facciamo il nostro gesto di “aspetta” con il braccio che va avanti e indietro, è probabile che ci risponda con un pugno in testa. Una lingua contiene gerarchie e valori che vanno rispettati. Se non li si “annusa” o non si diventa sensibili a percepirli si può rischiare molto».
 
Il potere delle lingue
Le lingue attualmente parlate nel mondo sono tra le 5 mila e le 10 mila, senza contare dialetti e varianti. Di queste, le 12 principali sono parlate da quasi i tre quinti dell’umanità, mentre le prime 30 da oltre i tre quarti. Il mezzo miliardo di cittadini dell’Unione europea, ripartiti in 27 Stati membri, parlano 23 lingue ufficiali, oltre a tutti gli idiomi minoritari e regionali. Eppure, secondo l’ultima indagine Eurobarometro solo la metà dei cittadini dell’Ue si dichiara capace di conversare in una lingua diversa dalla propria. E sempre secondo la stessa statistica, nel nostro Paese regna un atteggiamento contraddittorio: anche se il 97,7 per cento della popolazione e il 96 per cento delle imprese reputa molto utile la conoscenza delle lingue straniere, il 78,1 per cento non ha alcuna intenzione di apprenderne una nuova e il 95,4 delle imprese non intende organizzare corsi di formazione. «Il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa per il livello di competenza tra gli adulti – spiega Silvia Gerboni di EF Education First, organizzazione internazionale di formazione linguistica e accademica –. Secondo i risultati di uno studio da noi condotto, pubblicato in questi giorni a livello mondiale e che sarà presentato in Italia nei prossimi mesi, Italia e Spagna sono le uniche nazioni europee con un basso livello di conoscenza dell’inglese. Tra i Paesi europei solo gli spagnoli sono dietro di noi nella prima graduatoria internazionale sul livello di conoscenza dell’inglese». L’EF English proficiency index (Epi) è il primo studio comparato sulla conoscenza dell’inglese condotto a livello internazionale. Si basa su una serie di test linguistici on line che hanno coinvolto, tra il 2007 e il 2009, oltre 2 milioni di persone adulte di tre continenti.

«In parte è colpa del nostro sistema scolastico – prosegue Balboni –. Con un’ora d’inglese la settimana, i genitori sono convinti che i bambini studino inglese. Uno studio realizzato qualche anno fa dimostra che il risultato migliore si ottiene con due ore e mezza settimanali, svolte non di seguito, ma 20-30 minuti al giorno. A parità di quantità oraria, chi le faceva concentrate imparava, infatti, di meno. In Italia, per legge, possono insegnare alle elementari docenti con un livello di conoscenza d’inglese B1. Ma, in Italia, con un B1 uno straniero non può nemmeno iscriversi all’università. In tanti Paesi stranieri i bambini imparano una lingua, ad esempio, grazie a una baby-sitter pagata da più famiglie, la quale, giocando con loro, insegna anche parole diverse dalle loro». Il metodo più efficace per i bambini è quello dell’«esposizione» e non della spiegazione: i più piccoli non hanno ancora la struttura mentale richiesta per capire soggetto, predicato e complemento, ma hanno una capacità imitativa straordinaria. «Per i grandi dipende invece dall’uso – prosegue il docente –. Un tempo si pensava che imparare una lingua significasse saper parlare, leggere e scrivere, fare un monologo, riassumere e tradurre. Se ci si sposta per turismo interessa parlare, capire e leggere, molto meno scrivere. Un grande aiuto arriva dal mondo in cui viviamo: ci danno una mano internet, skype, dvd e cd. Il compito maggiore spetta, alla fine, all’insegnante. Il vero maestro, come riconosciuto da più parti, è colui che, oltre a spiegare la grammatica, sa porre a chi impara, bambino o adulto che sia, la domanda giusta. L’allievo formulerà una propria ipotesi riuscendo a trovare, da solo, il percorso per arrivare alla risposta giusta. In apparenza si rallenta, in realtà ciò che si apprende in questo modo non si dimentica più».
Per imparare, allora, non è mai troppo tardi. Tuttavia, per consolarci, abbiamo scomodato Friedrich Nietzsche il quale, senza mezzi termini, ci avrebbe assolto ricordando che: «Chi parla una lingua straniera soltanto un po’, ne trae più piacere di chi la parla bene. Il godimento appartiene a chi conosce le cose soltanto a metà».
 
       
Beppe Severgnini
 
Non è una missione impossibile
  
Imparare una lingua straniera non è una missione impossibile. «So bene che in Italia i “delusi dall’inglese” sono almeno quanti i “delusi dall’amore” – spiega Beppe Severgnini, giornalista del “Corriere della Sera”, per anni inviato all’estero, autore di manualetti “semiseri”, ma non troppo, sugli italiani in viaggio e sul loro rapporto con le lingue straniere, a cominciare dall’inglese –. Se la strada per parlar bene inglese è difficile, quella per farsi capire è uno scherzo. Il principiante non esiste, nessuno parte da zero. Milioni di italiani conoscono già, senza rendersene conto, un po’ di inglese prima di cominciare a studiarlo».
Per imparare una lingua, soprattutto per i più giovani, una tecnica infallibile rimane quella delle vacanze-studio. «Come la maggioranza degli italiani – prosegue Severgnini – ho studiato l’inglese (si fa per dire) alle medie, e come molti, durante le superiori, sono stato spedito dai genitori sulla costa della Manica per i classici “corsi estivi”. Ho sempre ritenuto l’idea eccellente. Per questo la consiglio caldamente». Questi i cinque consigli di Beppe Severgnini ai lettori del «Messaggero» per una vacanza-studio:

1. Decidete se volete studiare (e, già che ci siete, divertirvi); oppure se volete divertirvi (e, già che ci siete, studiare). In altre parole: volete [a] uno studio-vacanza o [b] una vacanza-studio?
2. Per i genitori: decidete per i vostri figli adolescenti in merito alla questione precedente. Ricordando che loro preferiscono la soluzione [b].
3. In ogni caso, evitate i corsi intensivi. Quattro ore al giorno di lezione sono più che sufficienti. Nel tempo libero, andate al cinema, al pub o a passeggio (anche nelle scritte pubblicitarie e nelle insegne dei negozi c’è molto da imparare).
4. Evitate di scegliere località frequentate solo da bande di italiani, e rifiutate di stare in una famiglia con altri italiani. In particolare, evitate la costa della Manica in luglio/agosto, e Londra (se avete meno di diciotto anni). Buone Cambridge, Oxford, York (nell’ordine). Ottime Scozia e Irlanda. Gli Stati Uniti vanno bene, ma sono distanti, e parlano americano (meglio iniziare con l’inglese britannico, il prodotto originale). Soggiorno minimo negli Usa: tre settimane. Un periodo più breve è utile per studiare il jet-lag, ma non la lingua inglese.
5. Internet e televisione sono i veri insegnanti d’inglese del XXI secolo.
Non fatevi impigrire, abituatevi ad ascoltare film/programmi in lingua originale (dai Simpsons a Lost).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017