Kilts tricolori
Lavoro, sudore e lacrime. I sacrifici di una generazione hanno consentito alla nostra comunità di accrescere il proprio prestigio e ruolo sociale. Antonio Crolla: «a rischio la nostra identità culturale».
12 Dicembre 2007
|
Edimburgo
La leggenda vuole che molti italiani approdassero in Scozia per sbaglio. Sbarcati nel porto di Greenock, sulla costa occidentale, pensarono di aver raggiunto New York, e per non affrontare un altro lunghissimo viaggio via mare, decisero di rimanervi. In realtà la Scozia è stata territorio d’emigrazione per noi italiani fin dalla metà dell’Ottocento e oggi, come allora, continua ad attirare giovani in vena di fare un’esperienza anglosassone in una splendida cornice naturale e architettonica. Gli emigrati provenivano in gran parte da Barga, vicino a Lucca, e da Picinisco, sul versante laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo. I primi si stabilirono a Glasgow, i secondi a Edimburgo, per il meccanismo di richiamo da parte dei pionieri. L’integrazione degli italiani in Scozia ha seguito lo stesso percorso riscontrato in altre zone della Gran Bretagna. Lavorando come venditori ambulanti, camerieri e operai nelle fornaci, sono riusciti con grandi sacrifici a far studiare i figli nelle istituzioni britanniche garantendo loro la perfetta integrazione, anche linguistica, nel Paese d’adozione tanto che ora, giunti alla quarta o perfino quinta generazione, d’italiano resterebbe soltanto il cognome se questi giovani, cresciuti dai genitori con l’amore per la terra d’origine, non mantenessero vive le tradizioni, la cultura e la lingua.
Antonio Crolla, uomo di spicco della comunità di Edimburgo, ci parla degli italoscozzesi, ovvero di quella categoria di scozzesi a cui batte un cuore italiano. Discendente di uno dei fondatori della celeberrima Valvona & Crolla, ditta d’importazione di prodotti italiani nata nel 1934 a Edimburgo e tuttora in attività, Antonio è nato in una famiglia modesta. Mamma Giuseppina era una sarta di Salerno mentre il papà Giacinto, di Frosinone, era un cuoco.
Trasferitisi in Scozia negli anni Sessanta, dovettero adattarsi a una vita difficile ma presto, armati di coraggio e iniziativa, per amore dei figli riuscirono a fare carriera: Giuseppina come infermiera e Giacinto come chef in un albergo di lusso. Antonio, che oggi ha 40 anni, ci dice che all’epoca non c’erano molti bambini italiani nelle scuole scozzesi ma l’inserimento non fu mai un problema. «I bambini fanno subito amicizia e superano gli ostacoli che spesso trovano gli adulti». Essere italiano fu un vantaggio. «Come tanti altri giovani di seconda generazione – continua Antonio – avevamo il privilegio di crescere coccolati dalle nostre mamme, mangiando le prelibatezze del nostro Paese che ci invidiavano tutti».
A differenza dei coetanei, Antonio e la sorella Gloria nel tempo libero dovevano aiutare papà Giacinto che, nel frattempo, aveva aperto il ristorante Il Cavaliere a Dalkeith, un paese non lontano da Edimburgo. Di quel periodo, però, Antonio non rimpiange nulla e puntualizza: «Ho ereditato l’attività di mio padre ed è grazie alla passione che lui mi ha trasmesso per la cucina italiana e per il commercio che sono riuscito a consolidare la nostra posizione». Un figlio molto grato al genitore anche per avergli fatto conoscere la comunità italiana da vicino. «Fin da ragazzino andavamo alla Chiesa di Santa Maria per seguire la Messa recitata in italiano e insieme ad altre famiglie frequentavamo le feste delle associazioni, gli incontri e tutte le altre occasioni per conoscerci e fare amicizia».
Grazie ai rapporti intessuti negli anni dell’adolescenza e al suo spirito d’iniziativa, Antonio fu eletto presidente del Comites nel 1992, e riuscì in poco tempo a coinvolgere la gioventù in varie attività sportive, come ci conferma lui stesso: «C’erano attività per tutti: sport, danze, gastronomia, per bimbi dai 6 anni ai più anziani». Con l’entusiasmo e l’energia della sua giovane età, Antonio fondò, insieme ad altri, un giornale locale e organizzò per gli italiani della sua zona fiere gastronomiche e processioni religiose. La sua passione per il calcio lo premiò con la presidenza dell’Associazione calcistica italoscozzese. Negli anni successivi, Antonio dovette, poco alla volta, allontanarsi dalla comunità per motivi di lavoro e di famiglia. «Sfortunatamente le attività di quel periodo non si sono consolidate, e oggi molti si sentono un po’ allo sbaraglio», commenta. Oltre duemila connazionali si incontrano ogni anno ad Alloa per la sagra estiva organizzata da Osvaldo Franchi, viceconsole di Glasgow, ma molti di loro vorrebbero un’istituzione a cui fare riferimento durante tutto il corso dell’anno. «Una Casa d’Italia – come ci dice sorridendo Antonio –. Un’idea che ha sfiorato tanti ma che nessuno è mai riuscito a mettere in pratica. Ad essa – continua, sognando ad occhi aperti – potrebbe essere affidato il patrimonio culturale dei nostri anziani e, allo stesso tempo, garantire alle future generazioni il legame, anche se forse solo emotivo, con l’Italia».
Il nostro idioma s’insegna in Scozia (come nel resto del Paese) tramite la presenza di corsi a livello elementare e medio presso le scuole locali come lingua straniera mentre per gli adulti esistono corsi che fanno capo ai patronati o agli istituti di cultura, ma non sono sufficienti a garantire il passaggio ai giovani del nostro bagaglio culturale. «I connazionali in Scozia – prosegue Crolla – sono circa 60 mila anche se, secondo stime non ufficiali, si pensa che siano almeno il doppio. Tra di essi vi sono i giovani che proseguono o perfezionano i propri studi nelle università scozzesi, coloro che vogliono imparare l’inglese e quelli che iniziano qui la carriera, magari usando come trampolino di lancio il Festival di Edimburgo, il più grande spettacolo a cielo aperto d’Europa. Ma molti tornano in Italia, e se gli italoscozzesi non riusciranno a trovare un modo per incontrarsi e unire le proprie forze, temo che la nostra cultura si perderà in un futuro non lontano».
Una triste previsione se si pensa che altre comunità, tra cui quella francese, quella turca, quella cinese, investono molti fondi per l’insegnamento delle tradizioni alle nuove generazioni. L’ottimismo, comunque, non fa difetto ad Antonio che conclude: «Fortunatamente l’arcivescovo di Glasgow, monsignor Mario Conti, è il nostro fiore all’occhiello ed è l’esempio di come un italoscozzese possa integrarsi senza dimenticare le proprie origini». Con l’incoraggiamento offerto indirettamente dall’arcivescovo, Antonio indossa i suoi abiti di ristoratore per offrire ai primi clienti il menù del giorno, rigorosamente italiano.
La leggenda vuole che molti italiani approdassero in Scozia per sbaglio. Sbarcati nel porto di Greenock, sulla costa occidentale, pensarono di aver raggiunto New York, e per non affrontare un altro lunghissimo viaggio via mare, decisero di rimanervi. In realtà la Scozia è stata territorio d’emigrazione per noi italiani fin dalla metà dell’Ottocento e oggi, come allora, continua ad attirare giovani in vena di fare un’esperienza anglosassone in una splendida cornice naturale e architettonica. Gli emigrati provenivano in gran parte da Barga, vicino a Lucca, e da Picinisco, sul versante laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo. I primi si stabilirono a Glasgow, i secondi a Edimburgo, per il meccanismo di richiamo da parte dei pionieri. L’integrazione degli italiani in Scozia ha seguito lo stesso percorso riscontrato in altre zone della Gran Bretagna. Lavorando come venditori ambulanti, camerieri e operai nelle fornaci, sono riusciti con grandi sacrifici a far studiare i figli nelle istituzioni britanniche garantendo loro la perfetta integrazione, anche linguistica, nel Paese d’adozione tanto che ora, giunti alla quarta o perfino quinta generazione, d’italiano resterebbe soltanto il cognome se questi giovani, cresciuti dai genitori con l’amore per la terra d’origine, non mantenessero vive le tradizioni, la cultura e la lingua.
Antonio Crolla, uomo di spicco della comunità di Edimburgo, ci parla degli italoscozzesi, ovvero di quella categoria di scozzesi a cui batte un cuore italiano. Discendente di uno dei fondatori della celeberrima Valvona & Crolla, ditta d’importazione di prodotti italiani nata nel 1934 a Edimburgo e tuttora in attività, Antonio è nato in una famiglia modesta. Mamma Giuseppina era una sarta di Salerno mentre il papà Giacinto, di Frosinone, era un cuoco.
Trasferitisi in Scozia negli anni Sessanta, dovettero adattarsi a una vita difficile ma presto, armati di coraggio e iniziativa, per amore dei figli riuscirono a fare carriera: Giuseppina come infermiera e Giacinto come chef in un albergo di lusso. Antonio, che oggi ha 40 anni, ci dice che all’epoca non c’erano molti bambini italiani nelle scuole scozzesi ma l’inserimento non fu mai un problema. «I bambini fanno subito amicizia e superano gli ostacoli che spesso trovano gli adulti». Essere italiano fu un vantaggio. «Come tanti altri giovani di seconda generazione – continua Antonio – avevamo il privilegio di crescere coccolati dalle nostre mamme, mangiando le prelibatezze del nostro Paese che ci invidiavano tutti».
A differenza dei coetanei, Antonio e la sorella Gloria nel tempo libero dovevano aiutare papà Giacinto che, nel frattempo, aveva aperto il ristorante Il Cavaliere a Dalkeith, un paese non lontano da Edimburgo. Di quel periodo, però, Antonio non rimpiange nulla e puntualizza: «Ho ereditato l’attività di mio padre ed è grazie alla passione che lui mi ha trasmesso per la cucina italiana e per il commercio che sono riuscito a consolidare la nostra posizione». Un figlio molto grato al genitore anche per avergli fatto conoscere la comunità italiana da vicino. «Fin da ragazzino andavamo alla Chiesa di Santa Maria per seguire la Messa recitata in italiano e insieme ad altre famiglie frequentavamo le feste delle associazioni, gli incontri e tutte le altre occasioni per conoscerci e fare amicizia».
Grazie ai rapporti intessuti negli anni dell’adolescenza e al suo spirito d’iniziativa, Antonio fu eletto presidente del Comites nel 1992, e riuscì in poco tempo a coinvolgere la gioventù in varie attività sportive, come ci conferma lui stesso: «C’erano attività per tutti: sport, danze, gastronomia, per bimbi dai 6 anni ai più anziani». Con l’entusiasmo e l’energia della sua giovane età, Antonio fondò, insieme ad altri, un giornale locale e organizzò per gli italiani della sua zona fiere gastronomiche e processioni religiose. La sua passione per il calcio lo premiò con la presidenza dell’Associazione calcistica italoscozzese. Negli anni successivi, Antonio dovette, poco alla volta, allontanarsi dalla comunità per motivi di lavoro e di famiglia. «Sfortunatamente le attività di quel periodo non si sono consolidate, e oggi molti si sentono un po’ allo sbaraglio», commenta. Oltre duemila connazionali si incontrano ogni anno ad Alloa per la sagra estiva organizzata da Osvaldo Franchi, viceconsole di Glasgow, ma molti di loro vorrebbero un’istituzione a cui fare riferimento durante tutto il corso dell’anno. «Una Casa d’Italia – come ci dice sorridendo Antonio –. Un’idea che ha sfiorato tanti ma che nessuno è mai riuscito a mettere in pratica. Ad essa – continua, sognando ad occhi aperti – potrebbe essere affidato il patrimonio culturale dei nostri anziani e, allo stesso tempo, garantire alle future generazioni il legame, anche se forse solo emotivo, con l’Italia».
Il nostro idioma s’insegna in Scozia (come nel resto del Paese) tramite la presenza di corsi a livello elementare e medio presso le scuole locali come lingua straniera mentre per gli adulti esistono corsi che fanno capo ai patronati o agli istituti di cultura, ma non sono sufficienti a garantire il passaggio ai giovani del nostro bagaglio culturale. «I connazionali in Scozia – prosegue Crolla – sono circa 60 mila anche se, secondo stime non ufficiali, si pensa che siano almeno il doppio. Tra di essi vi sono i giovani che proseguono o perfezionano i propri studi nelle università scozzesi, coloro che vogliono imparare l’inglese e quelli che iniziano qui la carriera, magari usando come trampolino di lancio il Festival di Edimburgo, il più grande spettacolo a cielo aperto d’Europa. Ma molti tornano in Italia, e se gli italoscozzesi non riusciranno a trovare un modo per incontrarsi e unire le proprie forze, temo che la nostra cultura si perderà in un futuro non lontano».
Una triste previsione se si pensa che altre comunità, tra cui quella francese, quella turca, quella cinese, investono molti fondi per l’insegnamento delle tradizioni alle nuove generazioni. L’ottimismo, comunque, non fa difetto ad Antonio che conclude: «Fortunatamente l’arcivescovo di Glasgow, monsignor Mario Conti, è il nostro fiore all’occhiello ed è l’esempio di come un italoscozzese possa integrarsi senza dimenticare le proprie origini». Con l’incoraggiamento offerto indirettamente dall’arcivescovo, Antonio indossa i suoi abiti di ristoratore per offrire ai primi clienti il menù del giorno, rigorosamente italiano.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017