La città dei fratelli

A più di settant’anni dall’inizio dell’Opera piccoli apostoli, battezzata più tardi Nomadelfia, la profezia di don Zeno Saltini, il fondatore, si conferma attuale: «È possibile vivere il Vangelo in comunità laiche miste».
12 Giugno 2013 | di
Vivere insieme come i primi cristiani. Quella che ieri sembrava un’utopia è ormai una realtà da molti anni: si chiama Nomadelfia e si trova a una manciata di chilometri da Grosseto, nel cuore della Toscana. Una città ideale, fondata da don Zeno Saltini (30 agosto 1900 – 15 gennaio 1981) nel 1948, nell’ex campo di concentramento di Fossoli vicino a Carpi (MO). Dagli anni ’50, dopo alterne vicende, si trova a Grosseto. L’intento è incarnare il Vangelo nella vita vissuta, e mostrare che si può vivere in fraternità senza essere «né servi né padroni». A Nomadelfia, infatti, si lavora per amore reciproco, senza retribuzione e interessi personali. In comunità non circola denaro e non esiste proprietà privata. I nomadelfi accolgono i bambini abbandonati e senza famiglia come figli di Dio; ognuno viene assegnato a gruppi di famiglie (5 o 6), che se ne prendono cura corresponsabilmente, al pari dei propri figli. Alla maggiore età, ciascuno è libero di scegliere se continuare a vivere in comunità o lasciarla.
Nomadelfia è una proposta di vita rivoluzionaria, che è costata lacrime e sangue al suo fondatore, don Zeno, prete emiliano, straordinario e creativo profeta del XX secolo, che per essa ha saputo affrontare grandi sacrifici. Una proposta che ricevette apprezzamenti anche da Giovanni Paolo II: «Vi sono grato – disse Wojtyla – per la vostra testimonianza cristiana. La vostra esperienza forse è un seme piccolo, ma deve crescere e diventare più grande e permeare la civiltà del mondo futuro».
 
Il prezzo della libertà
Pochi giorni prima di morire, don Zeno fece un discorso ai nomadelfi che in poche pennellate illustra il succo della sua esperienza di uomo, prete e fondatore: «Mi sono laureato in legge – disse – per essere di aiuto al popolo. Sono diventato sacerdote per essere una sola cosa con Cristo e dare al popolo una linea precisa, che possa condurre gli uomini a una politica e a una religiosità che siano soluzioni urgenti alla loro vita. È la politica che fa le guerre, che fa i disastri, che diffonde il male, che corrompe la gente e distrugge: è l’uomo che non ha una fede. A vent’anni dissi a mio padre: “Non sarò più né servo né padrone di nessuno, farò quello che mi suggerisce la mia fede, senza essere vittima di partiti o correnti politiche”. Mi sono liberato di tutto. Tutto in me era libertà, a contatto con tutti, ricchi e poveri, giovani, ragazzine, vecchi e vecchiette, sacerdoti, socialisti e anarchici, gente onesta e delinquenti, lavoratori e fannulloni, sobri e ubriaconi, giovani libertini e puri, gente di preghiera e bestemmiatori. Vivevo la libertà della giovinezza, nella Fede vivente. Oggi, sono un uomo libero e quelli che sono liberi in Nomadelfia è perché sono liberi con me». Quasi a tracciare una sintesi testamentaria, aggiunse con emozione: «Facevo cose grosse e quindi mi sono trovato in guerra, a litigare, mi sono trovato in tutto ciò che può capitare a una persona che ama. Basta amare e i guai nascono di colpo, perché se si vuole unirsi a Dio, bisogna essere come Dio. E Dio è padre e fratello di tutti».

La testimonianza di padre David Maria Turoldo, il grande poeta religioso scomparso nel 1992, durante un incontro con i nomadelfi arricchisce il quadro di quell’esperienza bella e difficile: «Ricordo come ragazzi di molti istituti chiedevano di far parte della vostra città. C’era anche allora chi fuggiva di casa e lasciava ogni cosa per farsi cittadino di Nomadelfia. Perfino alcuni dei miei confratelli, Servi di Maria. È stata così difficile e complicata tutta la vostra e nostra storia, per cui non c’è da stupirsi se le pene sono state ugualmente forti e grandi quanto la gioia. Si può vincere il sistema e cambiare le cose alla condizione di accettare la Croce. Il vero problema di ogni esistenza che crede, almeno nell’orizzonte cristiano, non sarà tanto quello di salvare il mondo, quanto di salvarsi dal mondo. Don Zeno è tutto questo».
 
Le mamme di Nomadelfia
L’esperienza di Nomadelfia ha idealmente inizio nel 1931, quando, durante la sua prima messa, don Zeno prende come figlio un ex carcerato, Danilo Bigarelli, detto Barile. È in quell’occasione che esprime per la prima volta l’idea che lo muove: «Vuoi leggere il Vangelo? Leggi le lacrime di un tradito dalla vita, raccogli i suoi cocci. Un solo segreto per incollarli insieme: amare. Se un figlio ti chiede il papà e la mamma, non gli darai l’istituto, lucido ma freddo, l’umiliante assistenza a ore e con lo stipendio. Come si fa a pagare l’amore?».

Un’intuizione che dieci anni dopo, l’8 dicembre 1941, s’incarna in un volto e in una storia. Una giovane di 18 anni, Irene, si presenta al vescovo di Carpi (MO) con due figli. Gli dice: «Non sono nati da me, ma è come se li avessi partoriti io». Il vescovo benedice Irene e con lei la «maternità virginea» che trova vita nell’Opera piccoli apostoli, la prima fondata da don Zeno per accogliere i bambini abbandonati. In breve tempo cinquanta ragazze si offrono di diventare madri, cogliendo il richiamo di questa particolare vocazione.E l’esperienza si arricchisce nel 1947 di un nuovo tassello: alle mamme si uniscono le famiglie, composte da genitori disposti ad aprire le loro case all’affido familiare. Anche per questa vocazione c’è un aneddoto da ricordare. Un giorno, quasi a suscitare l’originale vocazione, don Zeno disse ad alcune donne riunite per un ritiro spirituale: «Può l’amore che hai per tuo marito e tuo figlio diventare un ostacolo per amarci come fratelli anche tra famiglia e famiglia? Oggi o si ricostruisce la famiglia con la fede o si va a rotoli». Era convinto, don Zeno, che le donne sono chiamate ad amare più degli uomini. «State attente, donne-mamme di Nomadelfia – soleva dire –, quando prendete in braccio i figli, prendete in mano Gesù! Un figlio si cura come un fiore. Davanti a donne come la Norina, che ha tirato su più di sessanta figli, mi viene da dire che siete delle eroine e io sono disposto a baciare dove passate».

Un percorso pieno di spine
Un’esperienza unica che però ha in serbo tante spine, la più grande delle quali arriva proprio dalla Chiesa: don Zeno nel 1952 è costretto dal Sant’Uffizio a lasciare la sua creatura. «La notte dell’allontanamento da Nomadelfia – racconta padre Turoldo – gli ero vicino, in San Carlo a Milano. Lui, prono sull’altare della cappella del convento, con il volto tutto bagnato di lacrime, continuava a ripetere: “Io sto peggio di te, Signore. Tu nell’orto degli ulivi, almeno avevi il Padre con cui sfogarti, il Padre che capiva. Io, invece, a Roma, devo trattare con chi non capisce”». Nell’archivio della prefettura di Modena c’è una scheda che dice: «Zeno Saltini, ribelle all’autorità costituita». E lui rispondeva agli attacchi persino con un pizzico d’ironia: «Meglio in una barca che fa acqua, piuttosto che in balìa dei pescecani. Salti mortali, ma dentro la barca di Pietro». E ancora: «Verrà il giorno in cui su questo sacro palazzo (quello del Sant’Uffizio, ndr) sarà scritto, a caratteri di sangue: “In questo tribunale si perdona settanta volte sette al giorno”». Più di qualcuno lo provocava: «E se lei fosse Papa?». E lui non si tirava indietro: «Se fossi Papa chiuderei tutte le chiese e le riaprirei solo a chi porta i conti, a chi non sperpera, a chi si nutre sobriamente». E poi snocciolava un aneddoto: «Quando Pio XII mi ricevette nel 1948, gli dissi: “Santità mi lascia usare il suo telefono?”. “Cosa intende fare?” mi domandò. E io: “Chiamare i capi di Stato e dire: ‘Se non fate osservare almeno le leggi naturali, a cominciare dalla giustizia, siete scomunicati’». Nomadelfia, ne era sicuro don Zeno, era la risposta ai mali dell’uomo. Tanto che affermava: «Vogliamo fare un regalo a Dio? Facciamo Nomadelfia».
 

L’intervista
 
Francesco, guida di Nomadelfia
 
Msa. Che cos’è Nomadelfia oggi?
Francesco. Nomadelfia, con i suoi circa trecento abitanti, è una piccola popolazione di oltre cinquanta famiglie che vive vicino a Grosseto; ha poi un gruppo familiare anche a Roma. È spesso qualificata come utopia, ma la sua storia dimostra che questa intuizione ha messo radici, pur tra grandi difficoltà. Si basa sulla legge di fraternità: se l’altro è mio fratello, cambia la relazione nel lavoro, nella scuola, tra famiglia e famiglia. L’altro non è più una minaccia o un concorrente.

C’è qualche modello nella Chiesa o nella storia a cui don Zeno si è ispirato?
Per ritornare allo spirito dei primi cristiani, a don Zeno sono stati particolarmente utili san Benedetto e san Francesco, con il rinnovamento ecclesiale che hanno portato.

Come potrebbe essere definita Nomadelfia per la società d’oggi?
Si potrebbe definire un laboratorio per il futuro. Lo stesso concetto di «fraternità» si sta oggi riscoprendo come base fondante della democrazia, assieme ai valori più riconosciuti di libertà e giustizia. In ambito ecclesiale, il suo continuo richiamo ad «andare al popolo», per incontrare la gente dove si trova, è particolarmente in sintonia con quanto continuamente ribadisce papa Francesco.

Le porte di Nomadelfia sono aperte a tutti?
Tutti possono venire a visitare Nomadelfia ed essere nostri ospiti per qualche giorno, ma è fondamentale, per condividere una vita di fede, partire dal Signore. Le difficoltà maggiori che si possono incontrare sono legate alla condivisione, al vivere insieme. La vita comunitaria diventa una festa se si ha il coraggio di chiedere perdono e di perdonare «settanta volte sette» al giorno.

Come siete considerati dalla Chiesa e dallo Stato, oggi?
Per lo Stato Nomadelfia è una associazione civile, mentre per la Chiesa è una associazione privata di fedeli, riconosciuta dalla Santa Sede nel giugno del 2000. Questo riconoscimento conclude un cammino iniziato da don Zeno e portato avanti dopo la sua morte con un lavoro di revisione della Costituzione di Nomadelfia, previsto dal Concilio. Dal 1962 Nomadelfia è anche una parrocchia nella diocesi di Grosseto. Per cui si può parlare pienamente di «parrocchia comunitaria»: un fatto unico nella Chiesa.

Che cosa deve fare una persona per diventare nomadelfo?
Per far parte di Nomadelfia, dopo un tempo di discernimento, una persona deve fare una richiesta scritta. Se accettata, inizia un periodo di tre anni, di postulantato. Al termine di questo triennio di prova, con la firma della Costituzione sull’altare, una persona diventa nomadelfo, membro a pieno titolo del popolo.

Qualcuno ha detto che la «città dei fratelli» deve ancora venire.
Nomadelfia non è una favola, ma un’esperienza di cristiani vestiti a nuovo.
 
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017