La cività dell'amore
La memoria degli atti terroristici che hanno colpito lo scorso 11 settembre le Torri gemelle di Manhattan e il Pentagono a Washington è ancora viva nell'animo non solo del popolo americano ma anche dei Paesi del mondo che si riconoscono nei valori della libertà , della democrazia e nel rispetto della dignità della persona umana. Si pensava che dopo il crollo del Muro di Berlino non avremmo più visto simili fatti di violenza e di morte che ci hanno fatto constatare quanto nel mondo la pace e la sicurezza siano ancora drammaticamente insicure. La rivolta morale di quasi tutte le nazioni del pianeta per questi fatti terroristici che nessuna motivazione può giustificare, è stata globale: mai, forse, si è verificata una simile unanime condanna, unita alla domanda di maggiori garanzie per la difesa della vita delle persone, delle famiglie e dei popoli.
In questi ultimi mesi, siamo stati purtroppo testimoni di una serie di fatti negativi. Abbiamo assistito con inquietudine e amarezza alle scene di violenza in occasione del G8 di Genova; ci siamo rammaricati che alcuni rappresentanti di Stati aderenti abbiano abbandonato la Conferenza di Durban, togliendo forza morale e unanimità di consenso al documento finale che doveva affermare il «no» di tutto il mondo ad ogni forma di schiavitù; abbiamo atteso a lungo la tregua che doveva instaurare nei Territori del Medio Oriente un clima di reciproco dialogo e di convivenza civile: una speranza continuamente rimossa dai violenti scontri tra ebrei e palestinesi. Le immagini, infine, di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che continuano a fuggire dagli attacchi angloamericani contro l'Afghanistan ci pongono ancora di fronte al fenomeno di migrazioni forzate, e a nuove incognite.
Pur ammettendo le difficoltà di rapporto tra Islam e Cristianesimo, rese maggiormente gravi dagli ultimi attentati effettuati da membri di un movimento integralista-fondamentalista islamico, siamo tutti convinti che non possono esistere guerre di religione. Nonostante spirino venti di guerra «santa» sarebbe un grave errore demonizzare tutto il mondo islamico, un miliardo cioè di persone, che si sentirebbe spinto a unificarsi in un fronte anti-occidentale. Il rapporto con questo mondo è certamente l'impegno decisivo, la grande sfida del nostro secolo e, vivendo nell'era della globalizzazione, dobbiamo essere capaci di pensare al futuro su scala mondiale.
Un segno di speranza sulle prospettive del mondo ci è stato dato da Giovanni Paolo II che, visitando il Kazakistan e l'Armenia, è stato accolto dai cattolici usciti solo dieci anni fa dalle catacombe, dagli ortodossi e anche dai musulmani come un testimone di pace e di riconciliazione. Dal Kazakistan, il papa ha lanciato un forte appello: «Non dobbiamo permettere che quanto è successo porti ad approfondire le divisioni. La religione non deve mai essere usata come una ragione di conflitto; possano i popoli di ogni terra, sostenuti dalla divina sapienza, costruire una civiltà dell'amore nella quale non ci sia posto per l'odio, la discriminazione e la violenza». Anche il cardinale Edward Egan, arcivescovo di New York, ci ha lasciato una significativa testimonianza. Nell'ottobre scorso, all'apertura del Sinodo dei vescovi, ha ricordato che alla commemorazione delle vittime di New York, allo Yankee Stadium, c'erano tutti i rappresentanti delle espressioni religiose americane: «tutti siamo stati d'accordo che bisogna fare giustizia ma ritorsione, rappresaglia, vendetta sono parole che nessuna persona civile ha pronunciato».
Come frati e redattori del «Messaggero» siamo spiritualmente uniti a quanti sono stati provati dai gravi fatti di violenza. Forse c'è bisogno di un cammino di riconversione per riconquistare rapporti di pace, di reciproco rispetto, di forte coraggio morale non solo per bloccare gli attacchi terroristici, ma soprattutto per rendere più vivibile questo nostro pianeta, nei segni della pace e della giustizia.
P. Luciano