La convivialità è un atto d'amore
Carlo Petrini, piemontese di nascita ma cittadino del mondo, è il fondatore di Slow Food: il movimento che ha dato vita a Terra Madre: la rete mondiale delle comunità del cibo composta da migliaia di pescatori, agricoltori, allevatori su piccola scala, che vivono in 153 Paesi del mondo. Dalle idee di Petrini sono nati anche il Salone Internazionale del Gusto di Torino e l’Università di Scienze Gastronomiche. Le comunità del cibo, secondo la filosofia di Petrini, possono giocare un ruolo di primo piano nel consolidamento di un dialogo costruttivo tra chi produce e chi mangia, e nel riequilibrare il rapporto tra l’uomo e la terra.
Bettero. Il titolo del suo ultimo libro è Terra Madre, come non farci mangiare dal cibo per i tipi di Giunti Slow Food (www.slowfood.it oppure www.giunti.it). Cosa può fare ognuno di noi per restituire la sovranità alimentare all’uomo che oggi sembra invece totalmente alla mercé del consumismo?
Petrini. Penso che sia giunto il momento di adottare delle pratiche virtuose, anche a livello individuale, perché lo spreco che oggi dobbiamo constatare a livello mondiale, rispetto al cibo, è una vergogna. Non c’è solo un sistema distributivo che non funziona, siamo anche noi che abbiamo confuso il prezzo con il valore, e ridotto il cibo a merce. Dobbiamo ritornare a dare valore alla sacralità del cibo, dargli importanza e quindi essere morigerati nei confronti del piacere alimentare che è la base per vivere meglio e per difendere la nostra salute.
A livello planetario si stanno per saldare due pericolosissime emergenze: i cambiamenti climatici e la conseguente riduzione di risorse alimentari causata dalla progressiva desertificazione di suoli fertili. Quali scenari si prospettano?
La situazione è insostenibile. Il nostro pianeta non ha risorse infinite, e se teniamo conto che produciamo cibo per 12 miliardi di persone mentre la popolazione mondiale ne conta 6 miliardi e 300 milioni – un miliardo dei quali soffre di malnutrizione e di fame – ciò significa che più della metà del cibo prodotto, viene buttata via. Questa è la vera vergogna. Ed è li che dobbiamo intervenire. Non nel chiedere ancora più produzione, magari utilizzando nuovi e più massicci prodotti chimici che impoveriranno sempre di più i nostri terreni. Lavorando su questa razionalizzazione, sulla sensibilità contro lo spreco, noi possiamo davvero rafforzare le economie locali, le agricolture di prossimità, e nello stesso tempo produrre più cibo per tutti.
Qual è, secondo lei, il rischio più grande di un cibo omologato anche sul piano culturale e sociale?
Il fatto che le giovani generazioni perdono il senso del valore. Se i giovani potessero parlare con i loro nonni o bisnonni, senza andare nel Medioevo, ma solo a due o tre generazioni fa, direbbero: «sai nonno che io vivo in una società dove si spende di più per dimagrire che per mangiare». I nostri antenati replicherebbero: «ma voi siete tutti pazzi. Avete perso il senso delle cose!». Noi dobbiamo ritornare a dare valore alle cose, al cibo anche nei suoi aspetti spirituali. Perché è l’energia della nostra vita, perché è il rapporto in armonia con la terra madre, perché è basato anche sulla convivialità. Scambiarsi il cibo è un atto d’amore e di affetto. Se io voglio bene a una persona, lo dimostro trattandolo bene anche per come lo ospito a casa mia. Questi valori non possono essere ridotti esclusivamente a un elemento di consumo; è qualcosa di più.
Bruxelles ha dato il via libera a molti Ogm in Europa, quasi nel silenzio e nell’indifferenza generale. Questo dipende da un deficit di informazione oppure, peggio, da una sorta di assuefazione e indifferenza?
Tutte e due le cose. E ne aggiungo una terza: la lobby delle multinazionali presiede Bruxelles con i suoi uffici, con le loro comunicazioni alla stampa, con le loro forme di pressione. Purtroppo la piccola produzione individuale contadina non ha questa forza mentre la capacità di persuasione delle multinazionali è molto più potente.
C’è un fenomeno nuovo che si sta diffondendo: quello dello sfruttamento intensivo di vaste aree agricole per la realizzazione di carburanti d’origine vegetale poi destinati all’autotrazione. Per alcuni Paesi emergenti può essere anche un asset ma rischia di stravolgere alcune risorse alimentari primarie. Lei che ne pensa?
Penso che solo aree marginali di campi possono essere destinate a questo tipo di produzione perché sacrificare anche un solo ettaro di agricoltura destinata al cibo per fare correre le automobili, non va affatto bene. Mi riferisco in particolare ai Paesi del Sud del mondo che non possono essere depredati dei terreni. Proprio questo sta avvenendo in Africa per realizzare questo business a spese delle comunità e delle culture locali che invece sono l’unica grande forza di combattimento contro la fame.
La crisi finanziaria globale che stiamo vivendo è probabilmente la punta dell’iceberg di un malessere più profondo: sociale e direi anche culturale. Qualcuno ha parlato anche di vuoto di valori, addirittura di apnea della coscienza. Lei ha una sua ricetta globale per uscire dalla crisi in atto?
Credo che questa crisi ci offra l’opportunità di cercare un nuovo umanesimo. Credo che alcuni paradigmi devono essere assolutamente cambiati: occorre dare un valore diverso al consumismo; dobbiamo riflettere molto e ricostruire un nuovo rapporto con la terra perché il valore delle persone non dipende da quanto consumano. Inoltre dobbiamo imparare a governare il limite. Il non governo del limite del sistema produttivo globale, e in particolare del sistema produttivo legato all’alimentazione, sta diventando la vera grande emergenza. L’Italia ha avuto uno dei più grandi intellettuali della storia dell’umanità: san Benedetto, nel VI secolo dopo Cristo. Se uno legge le idee di questo grande italiano, capisce che alla base di tutto c’era il governo del limite. Oltre un certo limite non è giusto andare, per il rispetto della terra e per il rispetto dell’uomo.
«Terra Madre», la rete delle comunità del cibo fondata da Slow Food, come sta affrontando la crisi attuale?
Queste comunità sono fortemente inserite nel territorio. Praticano un’economia locale, valorizzano un’agricoltura di prossimità, difendono la biodiversità. Stanno già applicando nella loro vita quotidiana pratiche virtuose: l’importante è farglielo capire in modo che non si sentano sole e isolate. La rete serve a questo. La diversità è la più grande forza creativa. E, dunque, occorre che tutti abbiano la percezione di non essere soli, e che in altre parti del mondo c’è qualcuno che si impegna con la stessa filosofia a preservare l’ambiente, la natura, e anche a praticare la giustizia per chi lavora la terra.
Uno dei temi affrontati dalla recente assemblea della FAO a Roma, è stato quello del cosiddetto Land Grabbing, ovvero dell’accaparramento dei terreni agricoli in forma predatoria, e spesso ad esclusivo vantaggio di pochi investitori, che provocano ingenti danni a popolazioni e territori. Secondo lei siamo all’ennesimo capitolo di uno sfruttamento che genererà , alla fine, solo disuguaglianze ed emarginazione?
Certamente sì, ed è anche la dimostrazione che questo metodo non funziona, e che il processo di privatizzazione dei beni comuni non si può assolutamente frenare, a meno che non nascano nuove condizioni. Si è cominciato con i terreni, adesso con l’acqua; le multinazionali acquistano aree immense di interi continenti. L’80% delle sementi sono in mano a cinque multinazionali. Questa logica che distrugge il bene comune a favore di un interesse di parte, è una logica criminale. Bisogna avere il coraggio di denunciare queste cose, e di dire che dietro a queste pratiche c’è la responsabilità nei confronti di quell’umanità dolente che, purtroppo, non riesce a mettere assieme il pranzo con la cena, e che si sente svilita nei suoi valori. L’agricoltura di piccola scala non può reagire davanti all’arroganza di queste persone, di questi Stati. Bisogna assolutamente fare rete e iniziare a denunciare queste aberrazioni, sensibilizzando la politica perché cambi orientamento.