La democrazia associativa
La globalizzazione sembra essere la parola d'ordine della questione sociale del XXI secolo. Le Acli, l'Associazione cattolica dei lavoratori che in Italia raccoglie oltre 800 mila iscritti, ma è presente in tutto il mondo con le sue sedi e i suoi patronati, sta compiendo un coraggioso cammino di riflessione su questo fenomeno. Ne abbiamo parlato con il presidente nazionale, Luigi Bobba.
Msa. Il recente convegno tenuto a Vallombrosa, in Toscana, è servito ad approfondire contenuti e scelte delle Acli. Qual è il vostro atteggiamento di fronte al fenomeno della globalizzazione?
Bobba. La globalizzazione è una forza che sta effettivamente rivoluzionando il volto del pianeta. Però bisogna stare attenti che questo termine non diventi un parola cannibale, che tende a rendere indefiniti i contorni delle singole questioni economiche, sociali, istituzionali e culturali. Il nostro atteggiamento non è antagonistico alla globalizzazione, ma critico: più che «no global» potremmo definirci dei «new global». Vogliamo cioè un'altra globalizzazione; delle regole che garantiscano a tutti il diritto alla vita; dei processi economici che non generino e non aumentino, come sta avvenendo, le disuguaglianze. Vogliamo che tutti possano effettivamente accedere all'acqua, che ci sia una lotta senza quartiere contro la miseria, la fame, la povertà ; che le straordinarie ricchezze e potenzialità che sono nelle mani degli uomini e delle donne del nostro tempo siano messe a servizio di un pianeta più fraterno; che l'esclusione di milioni e milioni di persone dalla possibilità di avere un futuro dignitoso sia un orizzonte da modificare grazie anche alle iniziative che i movimenti prendono sentendosi parte del destino di questo pianeta.
Quali nuovi obiettivi si sono poste le Acli?
L'obiettivo più ravvicinato riguarda principalmente lo scenario del nostro Paese. Abbiamo parlato di una «democrazia associativa»: vedere cioè se siamo capaci di limitare o colmare quel fossato che si è creato fra istituzioni e cittadini, tra loro e ciò che avviene nel sociale, nella «piazza» raffigurata dal manifesto del convegno. Ci siamo detti: fra l'atteggiamento di chi dice che va tutto bene; fra quelli che ormai si sono arresi e dicono «non possiamo fare niente, perché tutto è nelle mani di altri», forse c'è oggi la possibilità di ridare voce ad una società civile formata da cittadini e da associazioni che sappiano dire qualche cosa rispetto non solo al destino di ogni cittadino ma al destino delle nostre comunità inserite in un'ottica europea e internazionale. La nostra associazione non si è posta degli obiettivi settoriali, ma ha cercato d'immaginare quale possa essere il futuro del nostro Paese, provando di dare un originale contributo: un modo di fare politica senza sostituirsi ai partiti, ma di scrivere nell'agenda della politica dei temi che finora non sono apparsi. Abbiamo così utilizzato il termine «democrazia associativa», dello studioso inglese Paul Hirst, il quale parla della possibilità che molte cose affidate allo Stato nel secolo appena chiuso, come organizzazione capace di rappresentare gli interessi di tutti, possono invece essere restituite nelle mani dei cittadini come soggetti capaci di offrire delle risposte ai bisogni sociali crescenti e differenziati che ci sono nelle nostre comunità . E poi, la seconda via, è quella che nel campo economico non ci siano solo le imprese private che fanno profitto, ma ci sia una componente non marginale di tipo cooperativo-mutualistico capace di creare ricchezza economica e sociale nello stesso tempo.
Di fronte al fenomeno del terrorismo internazionale, quale impegno sociale e civile è necessario per far dialogare civiltà e culture spesso agli antipodi?
Il terrorismo va condannato perché mette in discussione le basi stesse della convivenza civile. Alcuni studiosi hanno scritto che il XXI secolo segnerà lo scontro di civiltà diverse. Anche il cardinale Ersilio Tonini ha affermato che il conflitto sarà attorno a Gesù Cristo, come per dire che ci sono dei temi così profondi che richiedono forse una capacità di riflessione sulle culture, sulle modalità di civilizzazione che forse abbiamo lasciato in disparte come se quest'orizzonte fosse lontano. Se non costruiamo dei ponti fra tali culture, c'è il rischio che questo scontro di civiltà metta in discussione la possibilità di una convivenza pacifica.
Lei ha detto che «oggi manca la capacità di governare le forze possenti dell'economia»: che cosa significa?
Intendevo dire che in molti casi la politica sembra essere una periferia subalterna alle forze del mercato. Un'economia guidata unicamente dalla logica del profitto e dell'efficienza, presto impazzisce generando i gravi guasti e le diseguaglianze che sono sotto gli occhi di tutti.
Ecco il senso del mio messaggio: quel muro che si è costruito tra Nord e Sud del mondo, in cui la dimensione dell'economia è elemento portante, rischia di rendere impossibile un governo in qualche modo globale di ciò che sta avvenendo nel pianeta. C'è bisogno di più politica, che sia in grado di indicare la marcia, di guidare la locomotiva dell'economia che rischia altrimenti di finire su un binario morto, con tutte le conseguenze che questo può avere su larga parte dell'umanità . Guidare queste forze possenti significa riorientare l'economia su finalità che solo la politica può indicare.
Qual è la sfida che l'economia di mercato lancia alla dottrina sociale della Chiesa? Come umanizzare l'economia di mercato?
Nella Centesimus annus c'è un'espressione molto importante che sottolinea che anche quando i conti di un'impresa non sono in rosso ci potrebbero essere delle persone umiliate, delle dinamiche che non rispettano la centralità della persona. La sfida è di tenere insieme questo insegnamento del magistero sociale della Chiesa - centrato sulla persona che lavora, sulla disponibilità dei beni per tutti, sulla priorità del lavoro sul capitale - con il fatto che occorre inserire tutto questo nella dinamica di una libera economia di mercato e quindi sulla possibilità di sviluppo. Si tratta in qualche modo di contaminare il mercato con questi principi, non di negare il mercato, cioè di far sì che le potenzialità di cambiamento che le forze del mercato come forze di civilizzazione generano, siano orientate a fini condivisi. Forse bisogna in qualche modo ritornare a quell'Umanesimo del Trecento e del Quattrocento quando le dimensioni economica, spirituale e religiosa erano fortemente legate.
Il volontariato e le realtà del non profit possono avere ruoli e prospettive nel confronto serrato tra diversi modelli di società e contrastanti visioni dell'uomo e del sistema di valori?
Vorrei dire, con le parole di Jacques Delors, che ci sono in Europa più di 100 milioni di cittadini associati, che prendono parte a qualche forma di vita associativa. Forse bisogna andare a dissodare questa grande miniera a cielo aperto, come una straordinaria risorsa per la democrazia di domani: per evitare che le nostre democrazie si ripieghino su sé stesse diventando uno strumento tecnico, funzionale, dove i cittadini delegano tutto ai «sacerdoti della tecnica», rendendosi incapaci d'immaginare il loro futuro. Il mondo del volontariato e del non profit è uno straordinario luogo se ne abbiamo la cultura e la consapevolezza per elaborare in qualche modo visioni, orientamenti verso il futuro centrati su valori di tipo etico, sul fatto che la comunità degli uomini non può essere ridotta a un aggregato di mercato, ma deve mantenere dei legami che diano significato alla vita delle persone.
Romano Prodi, nella sua relazione trasmessa a Vallombrosa, ha parlato di una «società stracciata»: ricostruendo luoghi d'aggregazione, come si può restituire alle persone il gusto di essere ancora membri di una famiglia, di un'associazione, di una comunità civile e religiosa?
Il punto individuato da Prodi è un elemento cruciale. Ci sono infatti molte forze dinamiche che nelle nostre comunità tendono a lacerare, interrompere, separare, impaurire, generare un sentimento in cui ognuno sembra consegnato solo a se stesso. Credo che una realtà associativa come le Acli possa, attraverso la presenza capillare che ha sul territorio, far ritrovare il gusto dello stare insieme con una rete di servizi che accompagnino anche i tanti cambiamenti. Far sentire le persone meno sole, far sentire che insieme possono ancora costruire il loro futuro e che questo futuro non deve essere guidato solo attraverso sentimenti di paura e insicurezza, ma che si può uscire per ritrovare nel rapporto con l'altro il fondamento di una comunità . Credo che ci sia bisogno di un straordinario lavoro formativo perché i valori da cui veniamo nella nostra tradizione non sono di per sé automaticamente trasmessi da una generazione all'altra. Bisogna pensare a dei luoghi, momenti e strumenti perché questi valori si facciano nuova pratica sociale, nuovo incardinamento nella nostra comunità e nuova possibilità di dare alle persone un messaggio di fiducia e di apertura verso il futuro.
Quale messaggio può inviare alle comunità italiane all'estero?
Vorrei dire che il mondo, pur essendo diventato un villaggio globale, non deve mai perdere le proprie radici. Si può essere aperti al futuro, affrontare l'economia e il villaggio globale senza paure e senza insicurezze se si ha la certezza che le proprie radici danno un significato all'esistere di una comunità . Non sono radici che in qualche modo ci separano o ci impediscono di comunicare, anzi sono la forza con cui aprirsi a un dialogo. Appartenere a una comunità , non abbandonare le proprie radici è una forza potente per misurarsi con le sfide del pianeta. Tanti nostri connazionali, partendo dall'Italia per cercare lavoro, fortuna e dignità per le proprie famiglie, in qualche modo incarnano il cittadino che si è già fatto globale: sono capaci di far convivere anche culture diverse; non perdendo la propria, ma vivendo la propria radice come una risorsa per un incontro con altri e far sì che la cultura dell'umano sia in qualche modo la base di qualsiasi possibilità di convivenza. Credo che quest'Italia che è fuori dell'Italia sia una straordinaria risorsa di civilizzazione e un patrimonio che il nostro Paese conserva e che deve mettere al servizio di una comunità più grande di quella nazionale.