La fatica dei cambiamenti
Dal momento in cui ci affacciamo piagnucolanti in questo mondo, sappiamo che al varco ci attendono grandi cose, molte gioie. Ma anche una giusta porzione di fatiche. Che potremmo semplificare nella ben poco originale espressione: la fatica di crescere. E che non fosse banalmente una questione di altezza e peso, gli adulti ce l’hanno inculcato ben presto, intercalando regolarmente nella spensierata canzone della nostra infanzia il ritornello: «Cresci!», «Diventa grande!». Perché dentro di noi sapevamo che prima o poi avremmo dovuto ubbidire anche a questo. Crescere comporta reimparare ogni volta a lasciare lidi conosciuti per mete qualche volta segnate sulla mappa, intraviste o almeno dai contorni definiti nei nostri sogni. Altre volte dove guardiamo non c’è niente, però almeno è fiocamente illuminato dalla nostra poca fede. Comporta perciò anche rischiare, sbagliare, cadere e rialzarsi, muovere i nostri primi traballanti passi, sempre a rischio di fare i conti con la forza di gravità, per essere poi capaci addirittura di correre o scalare montagne. Ma aggrapparci alle nostre prime certezze non ci porterà molto lontano: resteremo incollati alla gamba di un tavolo o a quelle di mamma. Che fa tanto sicurezza ma ben poco futuro.
Il tempo che, inesorabile, passa e va, il fatto di aver davanti a noi una bella fila di domani, non è una maledizione, una bomba a orologeria che ci viene messa tra le mani al momento della nascita. Né ci deve consolare che, tutto sommato, l’anno se ne vada sempre a rate mensili. Giusto per renderci meno drammatico l’aggiornamento di calendario… Non è una condanna a morte, ma è la vita, che alla fine certo transiterà anche dalle parti di sorella morte. Quando tratterremo il nostro respiro un po’ più a lungo del solito. Ma, come al solito, per lo stupore di fronte a tanta bellezza o per concentrarci prima di lanciarci in qualche nuova gara o avventura. Per spiccare il salto della nostra vita, quello che abbiamo pazientemente, e talvolta senza neppure saperlo, preparato con i nostri piccoli salti quotidiani.
«Il miglior modo di venirne fuori è sempre quello di passarci in mezzo», scriveva lo scrittore Robert Frost. Lui che di sé scrisse anche che «due strade divergevano in un bosco, ed io – / io presi quella meno battuta, / e questo ha fatto tutta la differenza». Evitare di parlare della morte non ci metterà al riparo dal doverla vivere prima o poi di persona, una prima e ultima volta. Ciò che però possiamo fare è esserci, con tutto noi stessi, la nostra attenzione e tensione, i nostri ideali e azioni, prima che vengano a prenderci.
La felicità, ci ha garantito Gesù, non consiste nell’allungare la nostra vita, ma nell’allargarla: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35)! C’è ben poco da spiegare, così il nostro sant’Antonio è lapidario: «Devo cioè amare l’amico e il nemico, nel Signore e per il Signore; e per il mio prossimo, se sarà necessario, devo essere pronto a dare la vita». Mi era molto piaciuta anche una cosa che avevo letto dello scrittore Alessandro D’Avenia (a proposito: da questo mese anche lui è entrato nella squadra del «Messaggero»: ogni mese scriverà un tweet nella pagina dei giovani...), che riporto a memoria: «La vita proprio non mi torna: per possederla devi perderla per qualcuno»! Che bello! 365 giorni per amare e farci amare! Anzi, siamo proprio fortunati: uno in più, visto che il 2016 è bisestile! Senza perdere tempo, e senza scuse, perché i problemi sono davvero tanti. Cominciamo subito, oggi! Ci vorrà un secolo per risolverli, tanto sono complessi e fuori dalla nostra portata?! D’accordissimo. Lo vediamo anche noi, ma vediamo anche che se incominciamo domani, be’, ci vorrà un secolo e un giorno…