La gola

10 Marzo 1998 | di
Il cibo è stato la mia dannazione e la mia salvezza. Non del mio corpo, ma della mia anima. E la salvezza non l'ho conquistata alla fine di un itinerario da incontinenza a penitenza, perché la penitenza l'ho sperimentata fin dall'inizio della mia vita, nutrito da un'angosciosa povertà . Mio padre, un piccolo contrabbandiere che operava al confine tra Italia e Svizzera, morì nel '26 quando io avevo due anni e mia madre, un'ex cameriera dolcemente svanita, visse elemosinando nelle contrade di Sant'Ambrogio Olona, in provincia di Varese. Abitavamo in una catapecchia nelle adiacenze di Villa Toepliz, una casupola un tempo capanno degli attrezzi con annessa legnaia. A sei anni, forando le siepi, cominciai ad esplorare clandestinamente il grande parco della villa, a otto iniziai a saccheggiarne mele, pere e prugne, a dieci violai per la prima volta l'orto del guardiano: è dalla pratica del furto che ha avuto inizio il mio allenamento cucinario.

La prima volta rubai una zucca di cui abbrustolii i semi e che cossi a spicchi sulla brace, la seconda un mazzo di porri con i quali feci la minestra che, miracolosamente saporita, sostituì la zuppa di cicoria che preparava frettolosamente mia madre. In quegli anni, in cui imparai a sconfiggere la fame attraverso la mia arte di ladro di ortaggi e di mago delle pentole che ricavava leccornie dalla manipolazione di prodotti elementari, scoprii il piacere della sazietà , non senza il retrogusto del senso di colpa dovuto al fatto che mi nutrivo e nutrivo mia madre grazie ad una destrezza furtiva.

Imparai allora che la sazietà  può produrre non solo il senso della pienezza, ma anche il senso del vuoto e non per una persistente paura della privazione, ma per il dubbio che alla quantità  non corrisponda la qualità . Forse la mia nuova inquietudine nasceva dal fatto che dal furto dei prodotti dell'orto ero passato al furto dei libri della biblioteca del palazzetto con incorporato osservatorio astronomico, che dei quattro edifici della villa era quello dove risiedeva la baronessa Toepliz quando non era a far festa a Vienna o a cacciare in Africa: la lettura mi abituava a pensare con soprassalti di inquieta interrogazione.

A quindici anni, in ogni caso, ero già  un cuciniere così esperto da produrre torte salate, frittelle di varia dimensione e di diverso sapore, biscotti e croccanti che mia madre andava a vendere tra Sant'Ambrogio e il Sacro Monte, stazionando secondo l'estro davanti all'una o all'altra delle quattordici cappelle del percorso che conduceva al santuario: percorso che da simbolo della Via Crucis si trasformò per noi in strada di conquista di un tranquillo benessere. Ne ricavai la fama di esperto cuoco e già  molti ipotizzavano che sarei diventato lo chef del ristorante dell'albergo del sovrastante Campo dei Fiori, meta di turisti e villeggianti.

Ma arrivò la guerra a diradare pellegrinaggi e villeggiature. Per fortuna mia madre lasciò questo mondo nel '39, prima dell'arrivo dei giorni della carestia nazionale.

A diciotto anni, soldatino un po' pingue, venni spedito al fronte in Jugoslavia. Non posso dire di avere fatto la guerra, perché il mio compito era di preparare, sotto una tenda da campo o nella cucina organizzata in un edificio occupato provvisoriamente, un buon rancio per distrarre o consolare gli altri, per fare dimenticare la fatica delle marce, la rabbia degli assalti, l'angoscia dei massacri. Per me la guerra è stata paura, spaesamento, senso della provvisorietà , penuria di materie prime; ma questa penuria esaltava anche il mio talento; la mia sfida fu quella di non produrre mai sbobbe, ma cibi che, attraverso gli odori o i sapori, trasmettessero ai miei compagni curiosità  per la vita, un residuo di energia che li aiutasse a contrastare l'attrazione per la morte. Purtroppo il mio migliore rancio, uno spezzatino di vitello da leccarsi le dita, risultò frutto di una razzia, con annesso sacrificio: perché i miei due commilitoni che si erano procurati il tenero animale, l'avevano sottratto ad una donna che si era rivoltata, per cui l'avevano barbaramente uccisa. Questo lo seppi più tardi, come lo seppero molto tempo dopo gli altri compagni, sennò quella carne che io avevo insaporito ci avrebbe strozzati, bloccandosi in gola, o ci avrebbe intossicato le viscere. Certo è che il ricordo di questo episodio, con la relativa coscienza di come l'uomo possa trasformare la vita in orrore, ha insinuato in me il sospetto, che non sempre rimuovo, che il cibo possa anche essere veleno.

Dopo la guerra, nel '46, a ventidue anni, emigrai in Francia, andando ad abitare, su invito di un friulano conosciuto al fronte, ad Annemasse, che è un paese della Savoia, ai confini con Ginevra; e a Ginevra trovai lavoro, prima come aiuto cuoco al ristorante La Régence, poi come cuoco alla Locanda Ticinese. Ad Annemasse tutti avevamo un orto-giardino, per la gioia della gola e della vista. Il mio orto-giardino era molto curato e per ammirarlo venivano spesso a farmi visita le ragazze che corteggiavo e qualche volta, il mercoledì, che era il mio giorno di riposo, pernottavano da me: le ragazze nutrivano il mio appetito carnale, in quei giovani anni molto sveglio.

Dopo la guerra e dopo quella terribile storia del fronte che riaffiorava di continuo nella mia memoria, io avevo spesso sentenziato: 'Ne uccide più la spada che la gola'. Adesso, eccitato dalla compagnia delle donne, dicevo: 'L'esperienza trasforma il piacere del cibo e il piacere dell'eros in una virtù'. Perché pensavo che i due appetiti addestravano a conoscere, sperimentare, assaggiare e capire. Ma ogni tanto mi pungeva il cuore, come una spina, l'idea che l'abbandono al piacere cancellasse il senso della misura e dunque l'equilibrio psicofisico: per cui, ad intervalli, si svegliava in me la tentazione del digiuno. Avevo un bel dire che più che darmi piacere, io pensavo al piacere degli altri, commensali o amanti che fossero. Non era così: c'era, nella mia gioia, anche l'amaro dell'egoismo.

Parlai un giorno, mi pare la vigilia di Capodanno del '52, con il priore di un convento italiano che capitò alla Locanda Ticinese con tre confratelli. Il garbo con cui i frati affrontarono il pasto, dalla benedizione dei cibi ai complimenti per me che li avevo curati, mi mise in confidenza con padre Ermete, il priore, con cui ragionai della mia esperienza, dei miei entusiasmi e delle mie inquietudini. Lui mi rese, innanzitutto, sereno, nel farmi rilevare che, nella pedagogia di Cristo, il cibo era stato molto importante: la trasformazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana è il simbolo del nutrimento d'amicizia, la moltiplicazione dei pani e dei pesci per la folla che seguiva Gesù è il simbolo del nutrimento dell'amore di Dio, la spartizione del pane e del vino con gli apostoli è il simbolo della vita come eucaristia, come comunione.

Il frate nutrì il mio cuore con parole così sapienti e leggere che io decisi, dieci giorni dopo, di raggiungere lui e i confratelli al convento di Tirano, in provincia di Sondrio, dove io adesso vivo e lavoro, sempre tra orto e cucina. Pensavo di dovermi, almeno all'inizio, sottoporre alla penitenza del digiuno, ma padre Ermete mi ha convinto che la mia vera penitenza sta nello studiare sapori e odori non per me, ma per il prossimo. Preparo dolci da regalare alle famiglie che vengono a farci visita, scrivo ricette per le giovani donne che vogliono conquistare la gola e il cuore dei loro uomini, insegno agli uomini che passare il tempo nell'orto è un modo di pregare.

Addì, 24 dicembre 1997, io ho compiuto settantatré anni; il convento di Tirano si è spopolato: siamo rimasti in tre, padre Ermete, con la pena di non poter più leggere per la quasi totale perdita della vista, il padre guardiano, spaesato per il fatto di non potersi dedicare come vorrebbe ai visitatori a causa della progressiva sordità , io, sconcertato nel constatare che se la golosità  è una virtù, i vecchi sono dei grandi virtuosi, perché cedo sempre di più alla voglia di assaggiare ciò che invento e produco.

Chissà  in che mese e in che anno il Buon Dio mi chiamerà  nell'Aldilà : confesso che lo prego spesso di lasciarmi, in ogni caso, a lungo in Purgatorio; innanzitutto perché devo scontare molte colpe, ma soprattutto perché mi preoccupa l'idea che in Paradiso la totale beatitudine ci sottragga anche la sensazione dei sapori e degli odori, di cui io spero di continuare a godere anche dopo la morte; perché gli odori e i sapori generano i ricordi e, dunque, rigenerano i sentimenti. Ma oggi, che ho imparato a non disperare, non voglio sperare troppo: sia fatta la volontà  del Signore. Amen.

   
   

 

   
Un libro per il centenario
I l mandorlo e la locusta. Venti scrittori interpretano i Sermoni di sant'Antonio, a cura di Piero Lazzarin e Laura Pisanello (Edizioni Messaggero Padova, lire 30.000 - pagine 224) è il libro che inaugura il centenario del 'Messaggero di sant'Antonio'. Dimostra che i Sermoni di sant'Antonio sono ancora in grado di parlare agli uomini di oggi: venti scrittori e giornalisti del nostro tempo sono stati sollecitati a trattare un tema, spesso un vizio o una virtù, che già  Antonio aveva trattato nelle sue famose prediche. Il volume       è attualissimo e originale, raccoglie racconti, apologhi, delicate confessioni, libere divagazioni... I venti contributi offrono cenni sulla vita di Antonio e danno un'idea di quale fosse il linguaggio da lui usato per condannare i prepotenti, gli usurai, i prelati dai facili costumi. Ma ad emergere è soprattutto il mondo d'oggi con i suoi peccati (la superbia, la lussuria, la gola...), e le sue virtù, pubbliche e private. Peccati e qualità  sono tutti espressi da storie concrete o racconti fantastici. Il libro si presenta come una sorta di enciclopedia del 'corpo' e dell' 'anima', che nella ricchissima simbologia antoniana corrispondono appunto al 'mandorlo' e alla 'locusta'. Gli autori sono tutti affermati       scrittori o noti giornalisti. Da Guglielmo Zucconi a Carlo Sgorlon, da Ferruccio Parazzoli a Luigi Santucci, da Luca Desiato a Gaetano Afeltra, da Antonio Terzi ad Antonio Spinosa. E ancora hanno 'interpretato' i  Sermoni del Santo Raffaele Crovi, Ettore Masina, Rodolfo Doni, Francesco Grisi, Vergilio Gamboso. Ma nutrita è anche la rappresentanza femminile: Simona Mastrocinque, Mirta Da Pra, Fernanda di Monte, Mariapia Bonanate, Franca Zambonini, Antonia Arslan e Gina Basso.
   
   
R affaele Crovi è nato nel 1934. Editore e scrittore, lavora a Milano e a Firenze. Tra i suoi libri di poesia: Fariseo e pubblicano (1968, Premio Cittadella); Elogio del disertore (1973); L'utopia del Natale (1982, Premio Gatti, Premio Biella).Tra le sue opere di narrativa L'indagine di via Rapallo (Premio Basilicata 1997). Ha pubblicato il piccolo vangelo apocrifo Parabola (Piemme 1995) e la guida alla scrittura creativa Parole incrociate (1995, Premio Estense 1996).
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017