La Grande Guerra
Scoppia la guerra: l'assassinio dell'arciduca d'Austria e consorte, il 28 giugno 1914, da parte di uno studente serbo a Sarajevo, è la miccia che fa scoppiare una polveriera di crisi e di contrasti aggravatisi negli ultimi anni. Ad acuire i dissidi ci aveva pensato un mai domo nazionalismo, il desiderio cioè di ciascuna nazione di primeggiare sulle altre con qualsiasi mezzo e di imporre a tutti la propria supremazia politica e militare. Per questo ognuna aveva riempito di armi i propri arsenali.
I motivi di contrasto più a fior di pelle riguardano la penisola balcanica, sulla quale sia l'Austria, che si è annessa Bosnia-Erzegovina e Serbia, che la Russia hanno indirizzato i loro appetiti. Ma motivo di frizione sono anche Alsazia e Lorena, occupate dai tedeschi, sulle quali la Francia avanza diritti. Su tutto domina il progetto della Germania di conquistare i mercati europei per vendere i prodotti delle proprie industrie diventate fortissime...
La coincidenza di alcuni interessi ha favorito la formazione di due blocchi con mire e interessi contrapposti: la Triplice Intesa, formata da Inghilterra, Russia e Francia, e la Triplice Alleanza, stipulata tra Germania, Austria e Italia. Ma sui giochi in corso si avventa tragicamente l'uccisione dell'Arciduca d'Austria. L'Austria chiede alla Serbia di inviare nello stato slavo i propri poliziotti per assicurare alla giustizia l'attentatore. Ma la Serbia, sia pur pressata da un deciso ultimatum, oppone un netto rifiuto. All'Austria, per salvare la faccia, non resta che dichiararle guerra. Era il 28 luglio 1914: una delle più grandi catastrofi della storia moderna inizia così.
L'Austria, nel decidere la guerra, era convinta di aver al suo fianco, come da accordi, Germania e Italia. La Germania risponde all'appello nel rispetto dei patti, anche perché alla guerra è preparatissima. L'Italia è divisa da una vivace diatriba tra chi è favorevole alla guerra (interventisti) e chi no (neutralisti). Il mondo cattolico, con papa Benedetto XIV succeduto a Pio X all'indomani dello scoppio del conflitto, è contrario alla guerra, e per essa non mostrano simpatie neppure i socialisti e giolittiani.
Tra gli interventisti Gabriele D'Annunzio e Giovanni Papini. Quest'ultimo scrive su Lacerba proclami deliranti: "Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Ci voleva alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci di latte materno e di lacrime fraterne... Siamo troppi. La guerra lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano solo perché erano nati".
Alla fine l'Italia entra in guerra. Non a fianco dell'Austria, bensì della Triplice Intesa, rinnegando i patti firmati. Il motivo: la guerra può essere un'occasione per completare il Risorgimento, assicurando all'Italia (queste le promesse fatte dai soci dell'Intesa) il Trentino e l'Alto Adige fino al Brennero, con Trieste e l'Istria. Il 24 maggio 1915 l'esercito italiano, guidato dal generale Cadorna, muove contro l'Austria.
Come vive il "Messaggiero" (diretto dal 1915 al 1919 da padre Alfonso Orlich) la tragedia di una guerra che si protrarrà sino al 1918 con conseguenze negative sulla pubblicazione? Un cenno sulla minacciata tragedia incombente lo si trova nell'editoriale del gennaio 1915: "L'alba di quest'anno - scrive padre Orlich - si presenta satura di lagrime e sangue: e perciò vi ha bisogno di un amico che vi porti una parola di pace e di conforto in mezzo agli odi, alle vendette, alle ire dei popoli che fanno ecatombi di mille e mille baldi giovani".
Ma poi per tutto l'anno gli accenni al conflitto sono pochissimi. Ne troviamo uno nel numero di settembre. "Dalla zona di guerra" un cappellano militare scrive: "...Da due mesi sto presso il fronte, in mezzo ad un'aria satura di guerra... Qui ho visto tutti i soldati nostri mossi di ardore vivissimo per la gloria d'Italia, animati da quella forza che viene dall'alto, da quella scintilla che infiamma il cuore, da quel sacro dovere che è l'amor di Patria... Al tempo stesso però li ho visto tutti ripieni di sentimenti religiosi".
Ma le bombe cominciano presto a uccidere e a distruggere. La guerra è una scelta innaturale e non sempre, tra chi è costretto a combatterla, a dominare sono sentimenti di odio. Il solito frate cappellano, corrispondente di guerra dal fronte riferisce un episodio colto da un soldato ferito a morte... Austriaci e italiani sono impegnati in duello di artiglieria... "Esso dura un'ora... due... tre... poi tace... - scrive il cappellano -. Il nemico è stato ridotto al silenzio. Noi avanziamo per un terreno scosceso e pieno di insidie, fatti bersaglio a violentissime e continue scariche di fucileria, e lo mettiamo in fuga...". Molti i prigionieri, "alcuni dei quali, mossi da sentimenti umanitari o da un certo terrore, ci indicavano quali i punti più pericolosi con una mimica molto significativa, con un gesto eloquente, con una frase semiitaliana... "Quui, taliani, Bhum!, Mina! Mina!"... Un giovine imberbe, di aspetto non volgare, mentre faceva segno al mio valorosissimo capitano di non porre i piedi in un certo posto, perché ivi era nascosta una mina, veniva travolto e ridotto a brandelli da un altro di questi ordigni micidiali seminati e nascosti dal nemico...". Poi, accanto a un briciolo di retorica per la gloria della patria... il frate riporta sentimenti di umanissima nostalgia per i genitori e i fratelli lontani. Alla fine, il motivo ultimo di quello scritto: il giovane mortalmente ferito, si salva, grazie all'intercessione del Santo, cui si era votato.
Il dramma della guerra c'è anche in un semplice componimento poetico composto per l'onomastico del provinciale da fra Olivo Bertolo, uno dei frati che hanno dovuto lasciare "l'abito che era la divisa della milizia di Dio, per vestire quella del soldato d'Italia". "Per nessun soldato io credo - commenta l'anonimo confratello che presenta la poesia, e vi è nelle sue parole tutta la contraddizione della guerra - come per lui e per quanti ebbero la stessa educazione dello spirito, religiosi e laici cattolici, il pensiero della guerra fu prima, la sua dura realtà è oggi più in contrasto con la idealità della vita. Maggiore quindi il sacrificio; ma non da meno le forze".
Il problema della guerra è affrontato in modo più esplicito in un articolo dal titolo S. Antonio pacificatore di popoli. In esso ad un'Europa sconvolta dal "furore tremendo di guerra" il "Messaggiero" rivolge l'invito alla pace nel nome del Santo: "Pace, o popoli, pace! Ecco il grido che leva da Padova, la Lingua Taumaturgica del Santo. Pace all'Italia, all'Europa, al Santo! In nome di Dio che vi ha creati alla vita, in nome della Religione santa di Cristo, che vi rende tutti fratelli, in nome dell'innocenza che soffre, dei diritti conculcati, delle spose, delle madri assoggettate a penose privazione, a duri sacrifici...".
Di guerra si parla anche di un editoriale del 1916: "La guerra tremenda che si è scatenata con violenza infernale sull'Europa... e che da più mesi incombe anche sulla nostra Patria adorata, fa versare tutti i giorni torrenti di sangue e di lacrime". Si parla di "migliaia di giovinezze che cadono imporporate del loro vergine sangue! Esempio al mondo di grandezza, di eroismo e di fede indomita della balda gioventù italica".
Se qualcuno vuole servirsi del "Messaggiero" per capire come sono andate le vicende belliche: battaglie, strategie, avanzamenti, arretramenti... nelle sue pagine non trova granché. Non v'è cenno neppure della terribile sconfitta, che il 24 ottobre 1917 l'esercito italiano subisce a Caporetto... Però trova i drammi della gente, i veri protagonisti e vittime della guerra: li trova nelle lettere che giungono dal fronte: soldati chiedono la protezione del Santo, altri lo ringraziano per essere scampati alla morte; familiari chiedono preghiere per i loro cari in zona di guerra. Trova testimonianze di soldati che nel momento estremo del sacrificio ritrovano la fede, grazie anche al Santo, e riescono a dare un senso a quel bailamme inconsulto di vicende che tocca loro vivere. È il caso dell'avvocato Gaspare Bianconi, giovane giornalista di buone speranze "che per vari anni errò per le vie malagevoli del pensiero, e che al momento di compiere il più grave dovere verso la patria, sentì imperioso il bisogno di ritornare alla fede dell'infanzia, e qui nella nostra Basilica, ai piedi dell'Arca del Santo buono, piangeva con amarezza il suo passato di colpa e di errore". Episodio che il Bianconi ricorda nel bel testamento da lui scritto "poche ore prima che il piombo austriaco lo colpisse" e che il bollettino pubblica per intero.
Il cronista si infiamma quando ad essere vittima della guerra è la basilica. Succede nel 1917, il 30 dicembre. Per sei ore difilate, gli aerei austriaci scaricano su Padova quintali di bombe. Una di queste sfiora la facciata del santuario ed esplode sul sagrato. I danni non sono gravissimi, ma sufficienti a far scattare nel cuore di un frate cronista l'indignazione per l'affronto, la commozione e il ringraziamento per il pericolo scampato. È una delle pagine dove il senso della tragedia è più vivo e partecipato.
C'è anche qualche cenno di retorica in alcuni focosi interventi di Orlich: "Questa è l'ora degli eroi! - scrive nel giugno del 1916 -. Non mai le nostre generazioni hanno assistito a spettacolo più grande di gesta epiche, non mai l'umanità ha potuto ammirare con più stupore nella nostra stirpe, il tradizionale antico valor di generosità, di sacrifico, di fede, di eroismo, come in quest'ora. All'appello sacro della Patria diffusosi in un baleno dalle Alpi al Lilibeo come clangore di tuba d'arcangelo, la gioventù italica sorse in piedi animosa brandendo le armi, pronta a strappare all'antico oppressore gli ultimi lembi del suolo nazionale avvilito e piantare sulle sponde del mare nostro e sulle cime nevose delle Alpi il superbo tricolore, sotto il bacio del fulgido sole, in un cantico sublime di gloria...".
In genere però prevale l'idea che la guerra, conseguenza del peccato, non sia altro che "lo scatenarsi delle più violente passioni umane", "il divampare feroce di odio di fratelli contro fratelli", "il degradamento più umiliante dell'uomo che si mette al livello delle belve della foresta, sitibonde di sangue"; e non ha per conseguenza che "massacro, sterminio, distruzione: massacro di fiorenti giovinezze, sterminio di fragili creature innocenti, distruzione di opere divine ed umane...".
Nonostante la guerra, nel 1917 il "Messaggiero" celebra i vent'anni di vita. Una celebrazione in tono minore, anzi minimo perché "anche l'aurora del 1917 - scrive padre Orlini - sorge rossa di sangue. E con essa restano deluse le nostre più ardenti speranze. Speravamo che due anni di dolorosissimo calvario avrebbero bastato a rinsavire i popoli, speravamo che i mucchi fumanti dei cadaveri dei nostri figli e dei nostri padri avrebbero richiamato i restanti alla realtà...". La guerra infurierà a lungo ancora. Ma la nequizia dei tempi non riesce a soffocare nei frati un moto di soddisfazione per i vent'anni di vita del bollettino: "vita florida, operosa, feconda di bene..." scrive il direttore nell'editoriale di gennaio. Il piccolo seme aveva fruttificato e "la ristretta famiglia, raccoltasi all'inizio sotto le ali dell'inclito Taumaturgo Patavino, è divenuta una vastissima associazione di anime che raggiunge già molte decine di migliaia" (purtroppo non sappiamo quanti con esattezza).
Il direttore ribadisce poi le finalità della rivista: diffondere la devozione al Santo, con "appositi e ben scritti articoli di facile apologetica o di agiografia francescana, coll'esporre la vita e gli scritti di S. Antonio, coll'illustrare i capolavori artistici ispirati dai prodigi del Santo e in fine col narrare le grazie ed i favori che il Taumaturgo del mondo elargisce tutti i giorni ai suoi veri divoti. E tutto ciò in forma facile, spigliata e dilettevole, con grande serietà nella materia cercando di elevare nelle anime il vero senso cristiano così alieno da qualsiasi superstizione".
Gli intenti sono rispettati. Ritorna il lungo romanzo storico a puntate, Ezzelino da Romano, parte una Rubrica eucaristica, e una storia della Chiesa e del papato (Il papato e la chiesa), resa efficacemente attingendo alla storia e all'attualità: ne è autore padre Vittore Chialina.
Lunghissimi gli elenchi di offerte per il pane dei poveri (i tempi duri sollecitano la solidarietà), di richieste di preghiere, di raccomandazioni, di ringraziamenti per grazie ricevute, di nomi di zelatori della rivista: occupano una buona parte delle 32 o 24 pagine. Nel 1917 alle consuete liste si aggiunge quella del "Plebiscito antoniano", un'ardita (per i magri tempi che correvano) raccolta di fondi per il completamento del santuario dell'Arcella (vi era morto il Santo) con annessa torre campanaria. Una lista che si allunga di numero in numero.
Poi scoppia la pace. L'accordo viene siglato proprio in una villa situata alla periferia della città del Santo. Ecco come il "Messaggiero" saluta l'avvenimento nell'editoriale del dicembre 1918: "Il sospiro dei popoli, il voto ardente di ogni cuore sta per essere appagato: lo spettacolo orrendo delle armi è finito, e spuntata è l'alba foriera di pace".