La mia prima comunione

Il deficit psichico non implica per forza un deficit di fede. Anzi. Prepararsi all’eucaristia e condividere con familiari e coetanei la gioia che accompagna questo sacramento è un diritto di tutti. Disabili compresi.
25 Gennaio 2012 | di

Ricordo che il giorno della mia prima comunione, nel 1970, fu un disastro. Ma questo risultato era tutto sommato prevedibile: basti pensare che, a differenza degli altri bambini iscritti a catechismo, io ricevetti la preparazione al sacramento dalla maestra delle elementari «speciali» che al tempo frequentavo. Motivo: il sacerdote della parrocchia mi riteneva incapace di accedere ai contenuti e di esprimere una fede consapevole.
Il giorno della cerimonia, mentre tutti gli altri bambini erano seduti uno di fianco all’altro, ben visibili davanti all’altare, come veri protagonisti del dono del sacramento, per me e i miei genitori era stata invece predisposta una postazione sul retro della tavola eucaristica. Nessuno quindi poteva sapere che eravamo presenti in chiesa, tanto più che il sacerdote, quando elencò i nomi dei bambini, «dimenticò» di pronunciare il mio.
 
La disabilità, all’epoca, metteva profondamente in crisi l’istituzione religiosa cattolica, impreparata a gestirne le implicazioni, se non dal punto di vista assistenziale. Per il disabile, d’altra parte, l’accesso ai sacramenti veniva considerato inutile: la salvezza per lui era già scritta, già data, né gli veniva chiesto di far rivivere quei sacramenti nella vita della comunità. Credo che ancora oggi potremmo trovare casi simili, nonostante le tante persone che operano con responsabilità all’interno della Chiesa. A questo proposito, desidero condividere con voi una lettera che mi ha dato molta gioia e speranza: «Ciao Claudio. In occasione della prima comunione, ventisei tesori si sono apprestati a ricevere per la prima volta l’eucaristia. Uno dei bimbi, nonostante fosse autistico, si è preparato come gli altri, anche grazie all’aiuto della sorellina. Quella mattina, quando è arrivato in chiesa, aveva paura di tutta quella gente. La sorellina lo ha accompagnato ed è rimasta con lui. Alla fine il bambino è salito all’altare, ha alzato le braccia al cielo e si è messo a gridare “Grazie! Grazie! Che bello! Grazie!”. È stato l’unico che ha capito il dono grande che gli è stato fatto, e ha ringraziato. Qualche mamma aveva un po’ storto il naso, perché il bimbo riceveva il sacramento con gli altri. Come vedi, i veri disabili siamo noi».
 
Di questa lettera mi piace sottolineare il ribaltamento dei ruoli: da un lato i genitori degli altri bimbi scettici, dall’altro l’atteggiamento di apertura della parrocchia, decisa a mostrare tutto il suo «gregge», e non solo una parte. Il merito, in questo caso, va al percorso che la Chiesa ha voluto garantire a un suo membro colpito da un deficit psichico, ma non certo da un deficit di fede. La strada verso una «parificazione» tra normodotati e disabili è ancora in salita, ma credo che siano già stati fatti alcuni passi avanti. Avete voglia di raccontare anche voi le vostre prime comunioni? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017