La nascita
Forse nel mondo editoriale di allora nessuno si accorse o si preoccupò per la rivistina ("bollettino" si chiamerà per molti anni) che il primo gennaio 1898 vedeva la luce in Padova, allora povera provincia di un paese da poco unito che navigava a vista tra scogli politici e sociali d'ogni genere. L'Italia era appena riuscita a chiudere il capitolo della fallimentare politica coloniale, che non le aveva procurato né gloria né ricchezza, e doveva affrontare il malcontento della popolazione, afflitta da una crisi economica che aveva da tempo raggiunto le espressioni più drammatiche della miseria e della fame. Crisi cui la classe dirigente liberale succeduta a Cavour, non riusciva a dare risposte, perché culturalmente incapace di gestire le trasformazioni profonde che la rivoluzione industriale aveva messo in moto.
Alla nota avidità dei proprietari di terre che sfruttavano il lavoro dei contadini, compensandolo con paghe da fame, si aggiungeva quella degli industriali che con ancor minor generosità ripagavano il pesante lavoro degli operai, per ritmi massacranti di lavoro. "L'alimentazione del bracciante - si legge nel rapporto di un comune del mantovano, Quingentole - è minestra, vino e pane una volta alla settimana nelle stagioni di lavoro; in tutti gli altri giorni, polenta alla mattina, a mezzo giorno ed alla sera con cipolle o formaggio cattivo e non sempre; carne quasi mai" (A. Sacchi, La pellagra nella provincia di Mantova, Edizioni del Gallo, Milano 1966).
"Segno dell'inferiorità dello sviluppo industriale italiano, nei confronti di quello inglese, francese e tedesco, sono le condizioni in generale assai tristi della classe operaia: i salari bassissimi che per le donne nell'industria tessile scendono spesso a 70 centesimi per una giornata di dieci ore, e per gli uomini si aggirano tra minimi di L. 1,20 e massimi assai più rari di 3 lire..." (G. Luzzato, Storia economica dell'Italia moderna e contemporanea, Cedam, Padova).
E la gente, quando la misura della disperazione fu colma, insorse. Gli anni che precedettero il '98, furono segnati da un pullulare di moti e di insurrezioni, ai quali le istituzioni rispondevano nel modo più incongruo, con la repressione. La rivolta più importante era scoppiata nel Mantovano nel 1885, nota con il nome di la boje, perché, per i contadini insorti, la terra bolliva, era pronta ad esplodere per la rabbia e la sete di giustizia accumulate nelle sue viscere. Il governo mandò l'esercito a reprimerla: 140 contadini furono arrestati, scegliendo a caso tra loro. Non vi furono morti. Ve ne erano stati undici e quaranta feriti, invece, in Sicilia due anni prima quando soldati e carabinieri, aizzati dai latifondisti, avevano sparato senza preavviso su 230 contadini insorti.
Il governo, guidato dal marchese Antonio Di Rudinì, per placare la marea montante e rabbiosa delle agitazioni e tentare di lenire l'endemica povertà delle classi più povere, aveva varato alcune riforme sociali, che non ottennero però i risultati sperati perché applicate a rilento e con scarsa convinzione.
Proprio nel 1898, mentre il "Messaggiero" vedeva la luce, la crisi economica si acuiva in modo incontrollabile: la scarsità del raccolto in tutta Europa nell'anno precedente e la guerra fra spagnoli e americani che rendeva difficile l'acquisto di frumento dall'America, fecero salire il pezzo del grano dalle 22 lire al quintale del 1896 alle 37 lire del 1898, e lievitare a cifre impossibili il costo del pane. La ribellione, che negli anni passati s'era espressa in forme vibranti ma violente solo in casi sporadici, si generalizzò, coinvolgendo, tra le altre città, Roma, che fu posta per alcuni mesi in stato d'assedio; Parma, dove la folla inferocita fece scempio delle linee telegrafiche e dell'illuminazione cittadina; Firenze, dove la folla occupò Palazzo Strozzi e per alcuni giorni fu padrona della città.
Ma i fatti più drammatici avverranno a Milano, a maggio, quando per vendicare due guardie di pubblica sicurezza uccise in un tumulto, il generale Bava Beccaris farà sparare colpi di mortaio contro un assembramento di mendicanti, scambiato per un'adunata sediziosa: ottanta i morti e quattro giorni di tumulti nella città della Madonnina. Il paese finirà sull'orlo del caos, quando il 29 luglio a Monza l'anarchico Bresci ucciderà re Umberto I.
Stremata dai disagi e senza immediate prospettive, la gente aveva cominciato ad emigrare cercando all'estero opportunità di lavoro e di sopravvivenza che il paese non era in grado di garantire.
Intanto sul fuoco del malcontento soffiavano, trovando terreno fertile, socialisti e anarchici: i primi invocando la lotta di classe (lotta tra la classe operaia e la classe dei padroni) come solo strumento per ottenere salari più elevati, condizioni di vita meno disumane e riforme sociali; i secondi predicando l'insurrezione, il terrorismo per distruggere ogni autorità sia dello stato che della chiesa.
La chiesa non era stata alla finestra. Consapevole della gravità della situazione e dei pericoli rappresentati dalle soluzioni violente proposte da anarchici e socialisti, Leone XIII aveva preso posizione in favore dei poveri, con un'enciclica di determinante importanza, la Rerum Novarum (1891), nella quale, tra l'altro, richiamava con solennità e con forza i padroni ai loro doveri: "Dei capitalisti poi, e dei padroni, sono questi i loro doveri: non tenere gli operai in luogo di schiavi; rispettare in essi la dignità dell'umana persona, nobilitata dal carattere cristiano... né le leggi divine né le umane leggi permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e trafficare sulla miseria dei prossimi. Defraudare la dovuta mercede è colpa enorme, che grida vendetta al cospetto di Dio".
Sull'onda dell'emozione e degli stimoli provocati dall'enciclica, i cattolici avevano intensificato la loro organizzazione sociale iniziata nel 1874 con l'Opera dei Congressi e allo scadere del secolo potevano già contare su 921 società operaie, 705 casse rurali, operanti soprattutto nel Veneto...
In questo clima di vibranti contrasti ma anche di grandi speranze, vide dunque la luce e mosse i primi passi il bollettino che, per il luogo in cui nacque e per gli intenti che si proponeva, si chiamò "Il Messaggiero di S. Antonio di Padova" con quella "i" che solo nel 1931 i responsabili ritennero pleonastica e la tolsero.
Formato 16 per 24 centimetri, pagine 24; sulla copertina un'immagine di sant'Antonio che ha i piedi su una nuvola e in colloquio con Gesù Bambino; in basso due gigli incrociati (i fiori del Santo) e gli stemmi della Provincia patavina (una croce con tre ghiande dorate ai bracci), dei frati minori conventuali che officiavano la basilica del Santo (erano solo sei a causa della soppressione degli ordini religiosi imposta dal regio governo) e promotori dell'iniziativa, e quello dell'ordine francescano (un braccio del Crocifisso e uno di Francesco sovrapposti ad una croce). Impaginazione sobria, qualche rara foto in bianco nero della basilica.
Ispiratore del bollettino è padre Vittore Sottaz, rettore della basilica; direttore responsabile, in ossequio alle leggi (1867) che avevano soppresso gli ordini religiosi, un laico, Giuseppe Bruniera; direttore effettivo padre Alessandro Radovanovic; stampato in 6000 copie nel Regio Stabilimento P. Prosperini in Padova. L'abbonamento annuo lire 1.50; per l'estero lire 2.00: un fascicolo cent. 15.
Il periodico era stato sollecitato come frutto importante del settimo centenario della nascita del Santo che si era celebrato tre anni prima, nel 1895, "con feste splendidissime... nella insigne Basilica, monumento di fede e di arte che i Padri nostri innalzarono alla gloria di Lui". "In quell'anno - scrivono i religiosi nel presentare il primo numero - noi sentimmo piucchemai il bisogno di un periodico, che mettesse a parte delle nostre sante consolazioni ogni cuore, che a tante anime intiepidite nella fede facesse sentire l'eco della voce del Santo".
Dopo due anni di studi e di preparazione "potemmo effettuare il più fervido voto del nostro cuore, col dare alla luce un periodico illustrato, intitolato "Il Messaggiero di S. Antonio di Padova", che si andava ad aggiungere ad altri che avevano a cuore la diffusione della devozione al Santo (il riferimento è soprattutto a "Il Santo dei Miracoli", nato dieci anni prima, nel 1888, per iniziativa di un sacerdote padovano, don Antonio Locatelli), ma con una sua caratteristica particolare, unica, quella di essere espressione della città tanto amata dal Santo e della basilica che ne custodisce il suo corpo, diventata "testimone quotidiana delle manifestazioni della fede dei popoli, dei benefizi dalla prodigiosa sua destra compartiti".