La pace è un valore assoluto

Benedetto XVI si recherà a Gerusalemme, Nazareth, Betlemme e nella capitale giordana, Amman, dove visiterà la moschea Re Hussein: il nuovo luogo di culto dedicato al defunto sovrano.
13 Marzo 2009 | di

Roma
Non è un viaggio facile né tantomeno di routine quello che vedrà impegnato, nel mese di maggio, Papa Benedetto XVI in Israele, nei Territori palestinesi e in Giordania. La visita giunge in un momento di grande incertezza nella vicenda israelo-palestinese: la madre di tutte le crisi mediorientali. Di una «decisione coraggiosa» ha parlato padre Federico Lombardi, il gesuita che dirige tanto la Sala Stampa Vaticana, ed è quindi il portavoce ufficiale del Papa, ma che guida altresì la Radio Vaticana e il Centro Televisivo Vaticano. Padre Lombardi, in un editoriale diffuso proprio da Radio Vaticana subito dopo la conferma del viaggio, ha osservato che a renderlo complesso ci sono «le incertezze della situazione politica, le numerose divisioni interne ai vari campi», le «tensioni continue di una regione percorsa da conflitti e, di recente, segnata da una guerra che ha devastato la striscia di Gaza e ferito profondamente il suo popolo», il «processo di pace che stenta a fare passi risolutivi».
Ma la situazione geopolitica mediorientale non è il solo motivo di tensione che precede il viaggio. Lo stesso pontefice ha scelto come occasione per comunicare che si «stava preparando» al viaggio in Terra Santa l’incontro con i presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, la «Conference of presidents of major american Jewish organizations», un incontro avvenuto nel pieno delle polemiche tra Santa Sede e comunità ebraica, seguite alla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, tra i quali il negazionista Richard Williamson.
Nell’occasione, Papa Ratzinger, come già fece Papa Giovanni Paolo II, aveva chiesto perdono per il comportamento di coloro che nella storia hanno causato tanta sofferenza al popolo ebraico come con la Shoah: «un crimine contro Dio e l’umanità». Queste parole erano state molto apprezzate dai componenti della delegazione. «Diamo il benvenuto e apprezziamo la visita in programma del Papa in Israele», aveva detto il presidente delle organizzazioni ebraiche americane, Alan Solow.
Nonostante tale plauso, lo stesso Lombardi aveva ricordato che «ombre o diffidenze tornano in modo ricorrente a oscurare il dialogo ben avviato fra il mondo ebraico e la Chiesa cattolica». Tuttavia, non si può non concordare con il portavoce vaticano quando afferma che «bisogna andare lo stesso, anzi, forse proprio per tutti questi motivi è urgente andarvi».
Il dialogo interreligioso resta una delle principali difese contro l’irrigidimento dei contrasti, uno dei pochi antipodi al fanatismo fondamentalista che in Medio Oriente, come in altre parti del mondo, ostacola gli sforzi di intraprendere cammini di pace.
Ad Amman il pontefice visiterà la Moschea Re Hussein. Sarà la terza volta che un Papa sosterà in preghiera in un luogo di culto musulmano. La prima fu con Papa Wojtyla a Damasco, nel 2001; e la seconda con lo stesso Benedetto XVI nella Moschea Blu di Istanbul, nel 2006. Il contesto nel quale Benedetto XVI è chiamato a portare parole di pace, non sembra tra i più favorevoli ad accoglierle. Quanto accaduto a Gaza nei mesi scorsi, lascia strascichi pesanti. Tra i palestinesi, il sanguinoso attacco sferrato dagli israeliani per tre settimane, con l’uccisione di migliaia di civili, non solo ha provocato un crescente rancore, ma ha confermato un diffuso sostegno ad Hamas: il movimento che, da parte sua, non ha mai voluto riconoscere formalmente il diritto all’esistenza di Israele e rinunciare al terrorismo come forma di lotta politica.
In Israele, le ultime elezioni hanno spostato l’asse politico a destra, anche se è rimasto di stretta misura maggioritario il Kadima: il partito a suo tempo voluto da Ariel Sharon e da Shimon Peres su un programma nel quale il negoziato con i palestinesi è parte irrinunciabile. Tzipi Livni, la nuova leader del Kadima, ha dovuto rinunciare a formare il Governo e l’incarico è andato a Benjamin Netanyahu, il leader del Likud che già fu primo ministro di un Governo israeliano durante il quale il processo di dialogo subì brusche frenate.
Sullo sfondo, restano il perdurare della violenza in Iraq e le irrisolte tensioni legate alla vicenda iraniana. In questo senso – nella crisi israelo-palestinese come nella più complessa vicenda mediorientale – saranno decisive la determinazione e la fantasia della comunità internazionale nella ricerca di strade di pace. Un ruolo cruciale, come sempre nell’ultimo sessantennio, avrà l’atteggiamento dell’amministrazione statunitense. I primi passi di Barack Obama, in questo senso, sono stati significativi. Oltre all’annuncio del ritiro dall’Iraq, Obama ha già proposto una sostanziale novità di metodo nei confronti del regime di Teheran: l’interruzione del programma iraniano di arricchimento dell’uranio non deve costituire la precondizione del negoziato – come pensava la precedente amministrazione guidata da George W. Bush – ma il suo obiettivo finale. Pur ribadendo che l’opzione militare resta sul terreno, e che gli Stati Uniti mantengono il concetto di «tolleranza zero» (lo stesso di Bush), sull’ipotesi di un Iran dotato di bombe atomiche, Obama si è detto disponibile a incontrare personalmente il presidente Mahmoud Ahmadinejad, e ha fatto intendere di voler rompere l’attuale incomunicabilità, aprendo trattative dirette con Teheran.
Il nuovo presidente degli Stati Uniti, pur affermando come i predecessori una stretta partnership con Israele, intende costituire anche un vero e proprio coordinamento strategico per le iniziative nella regione. In questo senso, la gran parte degli osservatori ha valutato positivamente la prima missione nell’area, condotta in marzo dal segretario di Stato, Hillary Clinton.
Al tempo stesso, una rottura dell’atteggiamento di chiusura pregiudiziale ad Hamas, finché questa non accetti di riconoscere Israele e di rinunciare alla lotta armata, è venuta, sempre in marzo, dalla Conferenza tenuta in Egitto per gli aiuti alla ricostruzione di Gaza. Già in precedenza, peraltro, se n’era avuto un segnale con alcune importanti visite internazionali a Gaza, comprese quella del senatore statunitense John F. Kerry, ex candidato presidenziale; e soprattutto di Tony Blair, ex premier britannico oggi inviato del Quartetto per il medio Oriente (Onu, Unione Europea, Russia e Stati Uniti ).
Questo approccio più conciliante verso Teheran e verso Hamas, a giudizio di diversi commentatori, sarebbe motivo di inquietudine tra la dirigenza israeliana. Netanyahu ha usato la minaccia nucleare iraniana come argomento fondamentale della campagna elettorale, e l’ha citata anche nel discorso di accettazione dell’incarico di formare il governo. Di conseguenza, gli osservatori non escludono che Israele potrebbe essere indotto ad agire da solo.
Sembra difficile, con tali premesse, sperare di riannodare, tra israeliani e palestinesi, un vero dialogo che sciolga i nodi principali del negoziato, tutti ancora irrisolti: cioè le frontiere del futuro Stato palestinese, il diritto al ritorno per i profughi, il «muro» costruito in Cisgiordania. Fare previsioni sul futuro è dunque aleatorio. Sembra persino possibile che un’eventuale soluzione del pluridecennale conflitto tra israeliani e palestinesi, possa non avere un effetto domino su tutta la regione mediorientale, e che prevalgano altre questioni come quelle legate appunto alla guerra in Iraq o allo sviluppo del nucleare iraniano. Tuttavia, è indubbio che la questione palestinese resta cruciale nella soluzione dei problemi mediorientali.
L’auspicio è comunque che torni a prevalere lo spirito della stagione del dialogo, del quindicennio avviato nel 1978 con gli accordi di pace di Camp David, tra Egitto e Israele, mediati e ottenuti dall’allora presidente statunitense Jimmy Carter, e culminato nel settembre del 1993, con la lettera di Arafat a Rabin che riconosceva, da parte palestinese, il diritto a esistere di Israele, con la storica stretta di mano tra i due ex nemici sul prato della Casa Bianca, a Washington, sotto lo sguardo soddisfatto del presidente Bill Clinton, principale mediatore dell’accordo, e con la firma della Dichiarazione di principi: il documento che segna il vero avvio del processo di pace.
Oltre quindici anni dopo, però, si sono concretizzate ben poche delle aspettative aperte allora, e al momento la pace resta solo una speranza. Il viaggio di Papa Benedetto XVI può contribuire a nutrire questa speranza. Il pontefice, infatti, non è un comune capo di Stato, ma è soprattutto il capo di una religione che da tempo proclama la pace come valore assoluto.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017