La pace preventiva

Le democrazie occidentali rischiano di diventare protervi soggetti di un nuovo cieco imperialismo. La logica della guerra per imporre modelli culturali e politici, è destinata a fallire.
02 Aprile 2003 | di

 C'è stata, in questi ultimi mesi, - segnati da un confronto anche aspro tra Paesi alleati da decenni eppure profondamente divisi sulla necessità  di un intervento armato in Medio Oriente - una febbrile attività  non solo del Papa in quanto guida e pastore dei cattolici, ma altresì della diplomazia della Santa Sede. Non si è trattato e non si tratta, tanto e solo, di una pur lodevole e necessaria opera volta a ricordare che la guerra è male comunque. Non può, tale azione, essere «liquidata» con il riferimento a categorie quali bontà  o anche giustizia. Essa è invece un'azione precipuamente politica. Le parole del Papa nei discorsi pubblici e nei colloqui privati, le missioni dei suoi inviati, la quotidiana opera delle Nunziature (le ambasciate del Vaticano nei diversi Paesi) hanno mostrato non tanto e non solo l'urgenza immediata di scongiurare la logica della guerra - sebbene fortissimo sia stato il «mai» alla guerra ribadito dal Papa senza eccezioni -, ma anche e soprattutto quella di affrontare un'ormai improrogabile riflessione sui rapporti internazionali.

L'interdipendenza è la categoria che meglio esprime il nostro tempo dato che oggi s'intersecano fra loro i settori della vita sociale ed economica, gli interessi dei vari popoli, i diritti delle generazioni, comprese quelle non ancora nate. Tuttavia, interdipendenza non equivale ancora a pace, proprio per il continuo affiorare di interessi contrastanti e per la tentazione perenne di ricorrere al potere anziché alla ragione per dirimere i contrasti. Manca ancora, infatti, la convinzione diffusa - e tutelata - della priorità  dell'interesse collettivo. Il neo dell'interdipendenza sta nel passaggio dai molti all'uno, cioè dai popoli alla concertazione internazionale. Le regole giuridiche al riguardo sono certo importanti, ma possono avere effettiva efficacia solo se maturate nella libertà  e fondate su comportamenti etici individuali e collettivi.

Tutto questo esprime l'intensificata azione del Vaticano e delle realtà  organizzate del mondo cattolico. Tutto questo dice la Chiesa in un momento in cui nel mondo spirano venti di guerra, dopo che si è addirittura posto l'obbrobrio giuridico della guerra «preventiva», cioè in pratica del diritto di colpire chiunque, a qualunque titolo, possa rappresentare una minaccia, reale o eventuale, al proprio sistema di vita, al proprio interesse, unilateralmente assunto come bene in sé. Il Papa e la Santa Sede hanno detto in ogni consesso internazionale e in ogni circostanza possibile che è il cuore stesso della convivenza mondiale, con le sue mutate condizioni di interdipendenza tra i popoli, con le sue impellenti necessità  di autentica giustizia e con le sue esigenze di nuovi strumenti politici e istituzionali in questo passaggio epocale tra il secondo e il terzo millennio, l'argomento in discussione in quest'ora. Altro che guerra «preventiva». E poi: preventiva di che? Che cosa si previene con la guerra? Che cosa può essere tanto orribile da preferire la guerra? Quale alleanza, quale comunanza di interessi, quale vicinanza ideologica o culturale può assolvere uno Stato, un Governo, che ne segue un altro su una strada tanto inquietante? E per restare nell'ambito più propriamente ecclesiale, perché tanti cattolici pensano che i ripetuti, insistenti, inequivocabili appelli del Papa, delle Conferenze episcopali, dei missionari impegnati nel servizio dell'uomo possano essere considerati solo delle opinioni?

E per non restare nel generico: i Governi dei Paesi ricchi si rendono davvero tutti conto che la contrapposizione ideologica è finita nel 1989, se non prima, o c'è chi vuole riproporne un'altra e più devastante con il Sud del mondo «colpevole» di non adeguarsi al modello di sviluppo del Nord, di rifiutare che siano le dure e presunte «leggi» del mercato e del profitto a determinare il diritto alla vita o alla morte di miliardi di persone? L'Unione Europea, soprattutto, impegnata in uno sforzo epocale di allargamento e di unità , è o non è cosciente della necessità  di ripensare i rapporti che è chiamata a stabilire al suo interno e con i popoli del resto del mondo - in particolare i Paesi slavi, l'Africa e il Medio Oriente - e di porre l'attenzione sul futuro ruolo delle Nazioni Unite.

La principale domanda è: com'è possibile coniugare le molte culture con una convivenza pacifica mondiale? La risposta non è facile: la divisione territoriale del passato non è più ipotizzabile, e il principio della sovranità  degli Stati nella pratica si mostra ormai in ritardo rispetto alla capacità  di valicare i confini nazionali che oggi è propria sia delle comunicazioni, sia della mobilità  sociale, sia dei commerci, sia, e non da ultimo, del crimine organizzato.

C'è di più: lo sviluppo di alcuni popoli pesa inesorabilmente sugli altri e l'ingiustizia dei rapporti finisce per diventare una minaccia per tutti. Quanto detto porta inevitabilmente il discorso sull'organizzazione internazionale e sull'obiettivo ormai imprescindibile di porre in esercizio un'effettiva autorità  mondiale al servizio di ciascun popolo, capace cioè di coinvolgere le responsabilità  dei vari Stati e di assicurare il rispetto dei diritti umani fondamentali. Se le multinazionali possono agire indisturbate e condizionare gli Stati, è perché manca una regolamentazione giuridica internazionale capace di armonizzare gli interessi di parte con la solidarietà  dei più deboli, impedendo le forme di sfruttamento.

La questione, peraltro, trascende il pur importante aspetto della ripartizione delle ricchezze ed investe in senso lato il diritto alla vita. Non è accettabile che si assista impassibili ai genocidi, alle lotte tribali, alla violazione dei diritti fondamentali dell'uomo. Dire no alla guerra non significa negare la necessità  di un uso della forza in funzione deterrente. È indispensabile qualche forma di «polizia» internazionale, capace di assicurare la giustizia e la pace. Questo, però, implica una serie di prerogative che l'Onu oggi purtroppo non possiede. Di qui tutti i problemi di una riforma dell'Onu stessa che deve scrollarsi di dosso le ipoteche ricevute in eredità  nell'ultimo conflitto mondiale, deve acquisire potere d'intervento, essere in qualche modo controllata non solo dai Governi, ma anche dai popoli, in forme tutte da inventare, ma che coinvolgano le realtà  civili portatrici di esigenze generali, come sono per esempio le Organizzazioni non governative (Ong).

Tutto questo investe anche il campo dell'organizzazione della vita politica e sociale. La democrazia, anche a livello mondiale, appare sempre più come l'unica salvaguardia possibile per prevenire il ripetersi delle atrocità  del passato, che si ripresenterebbero in proporzioni gigantesche. Ma di solito, democrazia e vocazione imperiale e totalizzante, non vanno d'accordo. Oggi il potere si è trasformato, e il pericolo maggiore è rappresentato da una presunta «cultura» che omologa tutti sulla lunghezza d'onda dei bisogni, con l'annullamento di ogni capacità  critica ed etica. Occorre quindi una rieducazione profonda all'accettazione di ogni uomo e di ogni popolo e alla capacità  di gestire pacificamente gli eventuali conflitti.

Anche in questo soccorre il Magistero: Giovanni Paolo II nel discorso all'Onu del 1995, quello in cui invitava tale assise a farsi «Famiglia di Nazioni», affermava che «il mondo deve ancora imparare a convivere con le diversità Â», e poneva l'attenzione sul valore di ogni cultura, essendo essa «uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell'uomo». Il Papa sosteneva peraltro che tutto ciò non è contrapposto all'unità : «La condizione umana è posta così tra questi due poli - l'universalità  e la particolarità  - in tensione vitale tra loro; una tensione inevitabile, ma singolarmente feconda, se vissuta con sereno equilibrio». Accanto all'esigenza di un'autorità  mondiale, già  ipotizzata dalla Populorum progressio di Paolo VI nel 1967, emerge dunque oggi quella del rispetto delle etnie e delle culture, non certo intese come realtà  rigide e indeformabili, ma in continua evoluzione, attraverso il contatto e il rapporto con altre culture e per il susseguirsi delle generazioni portatrici sempre di bisogni nuovi. E importante allora che ognuno possa consolidare la propria identità  di base e contemporaneamente incontrarsi con altre espressioni culturali, senza prevaricazione. E sembra difficile usare i cacciabombardieri come strumenti per sostanziare tale esigenza.         

 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017