La pace Zoppa

Le armi sono state messe a tacere, ma il processo di ricostruzione del paese, sconvolto da otto anni e più di guerra, batte il passo rallentando la pacificazione. Il progetto
04 Settembre 1996 | di

A settembre dovrebbero svolgersi le elezioni in Bosnia, le prime dopo gli accordi di Dayton (Usa) che hanno messo fine a una guerra fratricida durata tre anni e otto mesi. Usiamo il condizionale perché nulla è sicuro in un paese che si trova nelle condizioni di chi sta emergendo molto lentamente da una malattia che l`€™ha portato alle soglie della morte. Dice infatti il mediatore americano, Richard Holbrooke, che può essere considerato il massimo artefice di Dayton: «La parte militare degli accordi è stata rispettata al 99,9 per cento, quella civile resta in grande parte da realizzare». Poi aggiunge: «La guerra è finita, ma la pace non ha ancora vinto».

Quando mi recavo in Bosnia durante la guerra, assieme a piccoli gruppi avventurosi di colleghi giornalisti, o in più complesse imprese di pacifisti nei vari tentativi di «marce della pace», ricordo che nessun valore avevano i cartelli stradali che indicavano la città  e i chilometri da percorrere per raggiungerla, perché le arterie normali erano tutte tagliate, sotto il tiro delle opposte fazioni, e per fare una decina di chilometri occorreva lasciare il fondovalle e arrampicarsi per tratturi di montagna (come la «pista Diamond» scavata dai genieri inglesi) in percorsi tre, quattro volte più lunghi.
Oggi la viabilità  è stata ripristinata e si corre di nuovo lungo le strade asfaltate, sia pure mal ridotte. I posti di blocco, un tempo così numerosi, dove si doveva stare attenti a tirar fuori il documento giusto, l`€™accredito rilasciato dalla parte che lo controllava, sono scomparsi e si fila dritto.
Però non sono scomparse le separazioni effettive fra le popolazioni. Se ne sono accorti i profughi che hanno tentato di tornare a casa anche solo temporaneamente per visitare i cimiteri, durante una celebrazione religiosa. È successo, ad esempio, ai musulmani durante la festa del Bairan che chiude il Ramadan: sono stati bloccati dalla polizia serba e, quando questo non bastava, dai serbi del luogo, che li hanno obbligato a fare dietrofront.
La città  musulmana di Gorazde, una enclave in territorio serbo, per gli accordi di Dayton, è stata collegata con un corridoio a Sarajevo. Ma, secondo gli ingegneri, ci vorranno da due a tre anni per costruire una strada definitiva; intanto l`€™autobus degli studenti che si recano quotidianamente all`€™università  di Sarajevo deve essere scortato dai militari della forza internazionale.
All`€™interno della stessa Federazione croato-bosniaca, che dovrebbe già  costituire il nocciolo della futura riunificazione, la normalizzazione va a rilento. In quasi tutta l`€™Erzegovina è la polizia croata in divisa verde a fare servizio d`€™ordine, non la polizia bosniaca mista; la valuta che gira rimane la kuna croata, e croati sono i francobolli.

IL BENESSERE DI Là€ DA VENIRE

«Nema problema» (Nessun problema), è il titolo che i nostri bersaglieri della forza internazionale di pace hanno dato al loro giornaletto. Il titolo rispecchia bene gli ottimi rapporti stabiliti con la popolazione e, superati gli iniziali sospetti di parzialità , con le varie comunità .
Il quotidiano di Sarajevo «Oslobodenje» (Liberazione), che è uscito anche nei momenti più terribili della guerra, ha dedicato loro un articolo affettuoso: Sotto l`€™ombra del ciuffo. Ma anche qui, se la parte militare funziona, se le truppe Nato sono ben viste dalla popolazione e non considerate come forza estranea, ma di pacificazione, la parte civile degli accordi di Dayton va molto più a rilento, e quella economica viene definita o percepita come deludente.
La Banca mondiale ha stanziato una prima tranche di 500 milioni di dollari come investimento per le più urgenti necessità  della ricostruzione della Bosnia. Ma Carl Bildt, l`€™ex premier svedese che sovrintende alla parte civile degli accordi di Dayton, lamenta che solo la metà  sia effettivamente arrivata. Uno dei dirigenti della stessa banca, James Wolfensohn, nei momenti di euforia che hanno seguito Dayton, ha esclamato: «Il benessere scoraggerà  la guerra», ma come è avvenuto più volte in casi analoghi (vedi Israele e Palestina), una cosa sono le dichiarazioni d`€™intenti, un`€™altra il reale afflusso di finanziamenti e investimenti.
L`€™economia invece tira subito quando si delinea l`€™occasione del buon affare. Così la compagnia statunitense Amoco ha iniziato trivellamenti per il petrolio in varie zone della Bosnia, altre stanno cercando nella Krajina riconquistata l`€™anno scorso dai croati.

PROGETTO «EUROSLAVIA»

Si chiama «progetto Euroslavia» ed è stato lanciato dalla rivista italiana di geopolitica «Limes». Parte dalla convinzione che solo facendo entrare in Europa tutti i pezzi della ex Jugoslavia si troverà  un assetto stabile e sicuro. In concreto, sul terreno si privilegiano i rapporti con quei politici e quei settori della società  civile aperti al pluralismo; un asse Tuzla-Banja Luka: la città  musulmana dove i vari gruppi collaborano e la città  serba dove prevale la moderazione.
Fra i progetti, anche la preparazione di un testo di educazione religiosa per le scuole, scritto in comune dalle tre religioni monoteiste: cristiani (ortodossi e cattolici), musulmani ed ebrei. A Sarajevo e nelle altre città  della Bosnia, la fine della guerra ha dato slancio ai gruppi di volontari italiani. I «Beati i costruttori di pace» di don Albino Bizzotto, che tutti chiamano familiarmente e semplicemente i «Beati», stanno aprendo ovunque sia possibile dei «presìdi» per controllare il rispetto dei diritti umani e aiutare le minoranze. Altri gruppi si dedicano alle «Ambasciate di democrazia locale» per favorire, ugualmente, il dialogo multipolitico e multiculturale. È una rete di iniziative piccole o meno piccole `€“ non dobbiamo dimenticare che i «Beati» hanno assicurato l`€™arrivo e la distribuzione della posta durante il lungo assedio di Sarajevo `€“ che vanno avanti come risposta della società  civile bosniaca, con il sostegno dei volontari di tutto il mondo, ai diaframmi che persistono, invece, a livello dei capi politici e per le lentezze della macchina della ricostruzione. Ci sono tanti segni della maggior fantasia che sale dalla base; ad esempio, la nascita a Sarajevo di un nuovo partito, «Donne di Bosnia», che rompe con le pseudo fedeltà  etniche.

LE ELEZIONI

In questa prospettiva, anche le elezioni diventano un momento importante della ripresa del dialogo; ed è ovvio ancorché auspicabile che per avviare la convivenza, le diverse comunità  dovranno scegliersi capi politici non legati ai rancori e ai crimini della guerra. È una conseguenza naturale, anche se non enunciata, degli accordi di Dayton.
Clinton preme per una sollecita realizzazione delle elezioni perché, guardando anche alla campagna previdenziale americana e alle critiche dei suoi competitori repubblicani, vuole annunciare al più presto il «ritorno a casa» dei ventimila soldati statunitensi impegnati nella forza di pace.
Qualcun altro è meno ottimista e prevede tempi assai più lunghi; ma una cauta speranza sembra il sentimento prevalente. Dice Tadeusz Mazowiecki, il polacco che, nel 1989, fu il primo capo di governo non comunista all`€™Est, ed è stato inviato dell`€™Onu per i diritti umani: «Imparare a convivere sarà  una impresa lunga e difficile, ma ora non mi appare più come una impresa disperata».
In tutto il mondo, e non solo in Bosnia, ci si continua a interrogare sulle spinte che danno avvio alla violenza etnica; e non sarà  un esercizio retorico, se le sofferenze della Bosnia serviranno a bloccare sul nascere altre tentazioni analoghe. Nei giorni dell`€™assedio a Sarajevo, ricordo che uno dei punti più micidiali era il ponte Vrbanja (il ponte dei salici) sul torrente Miljacka che contorna la città . Fra i tanti uccisi su questo ponte, una ragazza ventenne, Suada Dilberovic, forse la prima vittima della guerra, e il volontario italiano Gabriele Moreno Locatelli, falciato durante una testimonianza di pace. Una lapide ridà  voce a Suada: «La goccia del mio sangue corre come un fiume e la Bosnia non resterà  senz`€™acqua».

IL PAPA A SARAJEVO?

Due anni fa, di questi giorni, veniva annunciata la visita del papa a Sarajevo. Ma proprio alla vigilia, il sei settembre, quando già  l`€™auto blindata era stata sbarcata a Spalato, Giovanni Paolo II doveva, contro voglia, rinunciare. All`€™ultimo momento, il capo serbo Karadzic, con parole oscure aveva comunicato di non poter escludere «provocazioni» contro la persona del papa e dei fedeli raccolti attorno a lui. Così, per le pressioni serbe, la visita non ci fu e i fedeli, nella cattedrale di Sarajevo, poterono ascoltare solo l`€™omelia registrata di Giovanni Paolo II.
Oggi le condizioni sembrano notevolmente migliorate; e forse il papa potrà  realizzare quello che è un suo forte desiderio: incontrarsi in spirito ecumenico con questa comunità  che, come ha detto il cardinale Vinko Puljic, «ha resistito con tre armi: la preghiera, il coraggio e tanto humour». La visita del papa potrebbe, inoltre, rinvigorire l`€™impegno delle tre confessioni `€“ musulmana, cristiana cattolica e ortodossa `€“ per la riconciliazione dei cuori.

UN POPOLO DI PROFUGHI

I profughi della Bosnia sono stimati in due milioni e mezzo/tre milioni di persone, su una popolazione totale di... quattro milioni e trecentomila (al censimento del 1991). A maggio erano rientrate solo settantamila persone, e quasi unicamente in zone controllate dalla propria parte etnica. Il vero e proprio «ritorno» si è verificato solo per qualche centinaio di famiglie musulmane nelle cittadine croate di Jaice e Stolac, e di famiglie croate a Bugoino e Travnik controllate dai musulmani.
Per i profughi che ritornano sono stati stanziati, dalla comunità  internazionale, settanta milioni di dollari, investiti in materiali da ricostruzione (legno, tegole, materassi, soprattutto vetri); ma le autorità  locali impongono una sorta di lottizzazione: per inoltrare gli aiuti alle famiglie che ritornano, ne pretendono altrettanti per quelle di etnia dominante del luogo. Infine, in Bosnia ci sono più di trentamila «scomparsi» che si teme siano stati uccisi durante le pulizie etniche e gettati segretamente in fosse comuni.

MEZZO MIGLIAIO DI ORIUNDI

Nella capitale bosniaca vivono 485 persone che vantano una discendenza italiana e si sono riunite in associazione. Sono quasi tutti anziani e imparentati con i locali. Cosimo De Lucia, un salernitano sposato con una bosniaca, era diventato famoso aprendo un chiosco di alimentari all`€™inizio della pista del monte Igman, dove transitavano i convogli delle Nazioni Unite. Alla fine dell`€™assedio è arrivato anche un negozio Benetton, nel cuore della città . E un ex volontario di Bologna, Federico Lanzarini, ha aperto con i bosniaci una fabbrichetta di scarpe: la Arco.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017