LA PAURA CHE FA UCCIDERE

02 Ottobre 1998 | di

Chiamiamolo Claudio. Non solo in ossequio alla legge sulla privacy e a quella sull'Aids che garantisce l'anonimato ai malati, ma per quel profondo rispetto che è dovuto a chi soffre. Del resto, la stessa tutela dell'anonimato prevista dalla legge spesso viene violata, come hanno denunciato le associazioni che lottano contro l'Aids e le discriminazioni che colpiscono i malati.

Quest'estate, 400 associazioni e gruppi hanno sottoscritto un documento per chiedere che, assieme alla creazione di un registro di sorveglianza sanitaria sulle persone colpite dal virus, previsto da una recente disposizione, vengano introdotte sanzioni per chi, non tutelando un rigoroso anonimato dei pazienti, consente discriminazioni nel mondo della scuola, del lavoro e dello sport.

Se non sempre l'anonimato viene realmente garantito, anche il rispetto non è sempre scontato o immediato: l'indifferenza, il cinismo, magari la semplice disattenzione o la distratta superficialità , con cui talvolta si assiste a vicende umane di grande fatica, possono innescare il pregiudizio, il rifiuto, l'esclusione che aggiungono dolore a dolore, solitudine a solitudine, in una spirale di sofferenza che magari viene «messa in mostra», ma che non viene veramente condivisa attraverso quell'aiuto silenzioso che sostiene e accompagna nei momenti più duri, per ritrovare speranza.

Forse era anche questo il timore che ha portato Claudio a togliersi la vita, pochi giorni dopo aver saputo di essere sieropositivo: la preoccupazione di poter essere giudicato e isolato, la paura di una malattia che provoca paura anche negli altri.

La paura, e anche il pregiudizio che facilmente ne discende, si combattono con la solidarietà , ma sarebbe meglio chiamarla reciprocità , perché la vera solidarietà  è quella che si fonda sulla comunicazione, sulla conoscenza e soprattutto sullo scambio, sul riconoscimento di una comune dignità  e di un eguale valore tra le persone, quale che sia la diversa condizione o la differente fatica che si trovano a vivere. Si combattono con l'informazione: conoscere è la premessa per non allontanare ciò che non si capisce, per non nascondere ciò (e chi) ci crea ansia e timore.

L'Aids, intrecciata com'è nel senso comune a un'idea di «colpa» e di «vergogna», viene identificata solo con determinate «categorie» di persone e rende ancora più difficile un'informazione corretta sulle modalità  di contagio, sulla prevenzione, sulle risorse terapeutiche.

Magari Claudio non sapeva che i progressi della ricerca scientifica sembrano ora consentire un po' più di fiducia, che le nuove terapie contro l'Aids si stanno rivelando efficaci. Certo, il vaccino ancora non esiste e, per quanti sono già  malati, non vi sono cure miracolose e definitive. Ma i decessi stanno decisamente diminuendo e la vita dei malati si è comunque allungata e migliorata. Almeno in Europa e in Occidente, dove i nuovi farmaci sono accessibili e la prevenzione comincia a dare risultati, mentre la malattia continua a diffondersi e a uccidere nei Paesi più poveri.

La dodicesima «Conferenza mondiale sull'Aids», tenuta quest'estate a Ginevra e che aveva significativamente come titolo «Colmare lo squilibrio», ha messo in evidenza come il 90 per cento delle persone sieropositive non abbia accesso ai trattamenti terapeutici e ai nuovi farmaci. Degli attuali 80 milioni di malati e sieropositivi, infatti, 21 milioni sono nell'Africa subsahariana e oltre 6 milioni in Asia.

Nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, dunque, di Aids è più facile infettarsi ed è assai più probabile morire per le varie infezioni collegate al calo delle difese immunitarie, ad esempio la tubercolosi. In Africa, il costo della profilassi è di 36 dollari, una somma proibitiva per le popolazioni locali. La lotta all'Aids, insomma, non è solo un problema medico e scientifico: è anche questione di giustizia sociale; l'epidemia si combatte anche rendendo più equa l'economia, colmando gli squilibri dello sviluppo e delle condizioni di vita in tanta parte del mondo, la stessa già  segnata da altre malattie, dalla fame e dalle guerre.

Di fronte a quel mare di sofferenza e di ingiustizia, ai milioni di morti, può sembrare un «lusso» o un'inezia soffermarsi sul diritto all'anonimato, sulla denuncia delle discriminazioni sul lavoro o della superficialità  con cui, a volte, televisione e giornali parlano dell'Aids «spettacolarizzando» il dolore dei malati. Eppure sono parti di uno stesso discorso, dello stesso diritto che tocca a chiunque, ovunque sia nato. Claudio e il bambino ugandese chiedono, in modo e forme diverse, il rispetto integrale per l'uomo, il valore della reciprocità , della condivisone e dell'impegno.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017