La pioggia su Nelson

Mandela ci insegna che la diversità, se vissuta e accettata così com'è, ha in sé un potere sovversivo e rivoluzionario che apre alla libertà.
29 Aprile 2014 | di

Sapete che differenza c’è tra Italia e Africa? Quando piove, in Italia la gente esclama «governo ladro!»; in Africa, invece, quando piove si dice che «il cielo piange la scomparsa di un grande uomo»… È proprio quanto è successo lo scorso 15 dicembre al funerale di Nelson Mandela, una vera icona, un simbolo politico e morale che ha fatto della sua parola di pace e uguaglianza un’azione capace di cambiare il volto e la storia del suo Paese, il Sudafrica, e non solo.

Protagonista della lotta per la liberazione dall’apartheid, la sua figura ha accompagnato la giovinezza di molti che hanno creduto nelle possibilità di cambiamento proprie della diversità, certamente in termini di integrazione e conquista di diritti, ma anche nell’alternativa offerta da nuove risposte non violente – non per questo meno efficaci! –, capaci di agire sul ribaltamento dell’immagine.
 
Mentre ripercorrevo la storia di Nelson mi sono imbattuto in un racconto, legato al suo periodo di prigionia, negli anni Settanta. Là, nella famosa sezione B di Robben Island, i prigionieri neri erano chiamati da tutti «calzoni corti», a motivo dell’indumento che erano costretti a portare. In realtà era soprattutto un modo per ribadire la loro condizione di «infanti» rispetto al resto della popolazione carceraria. Un’immagine per certi versi umiliante, che fa venire in mente un diffuso modo di porsi nei confronti della disabilità. A essere messi in discussione, infatti, sono due concetti fondamentali dell’autonomia (e quindi della libertà) individuale, ovvero la responsabilità e il potere decisionale, così come avviene nella tipica dinamica adulto-bambino. Due punti critici trasversali che ancora una volta portano in campo i pregiudizi dell’accudimento e della tutela, sempre in gioco nella relazione con la disabilità, soprattutto nella sua percezione sociale. Quello che colpisce, però, è che a Robben Island Mandela non si è limitato a vivere la prigionia in ostilità e rifiuto, ma ha cercato di agire proprio a partire dalla condizione di carcerato, denunciando dall’interno le ingiustizie e facendo leva sulla consapevolezza dei compagni di cella.

C’è una frase del nostro condottiero a cui sono da sempre affezionato, che compare in una celebre poesia: «Io sono il padrone del mio destino / Io sono il capitano della mia anima». È un pensiero che ha fatto da bandiera a tutto il mio percorso e che ben si sposa con la cultura dell’educazione e della disabilità. Mandela ci insegna che la diversità, se vissuta e accettata così com’è, ha in sé un potere sovversivo e rivoluzionario, è l’essenza stessa dello scandalo nel suo significato originario di «inciampo», frapposto nella distanza tra il diritto e il dovere della partecipazione. È un processo faticoso che porta con sé sudore e lacrime, ma che quando giunge alla fine apre definitivamente alla libertà.

Come cantava l’eterno ragazzo Morandi, «Scende la pioggia ma che fa... amo la vita più che mai». Di pioggia ne è scesa su Mandela, ma alla fine ha vinto lui. Grande!
 
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Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017