La riscoperta del volto di Antonio
Msa. Tant’è che si temeva di trovare il sarcofago vuoto.
Padre Poppi. Infatti circolavano voci e leggende ridicole. Secondo Lucas Wadding, storico vissuto nel ’600, nel 1300 le ossa del Santo erano state riposte in una cassa d’argento; altri avevano ipotizzato un’apertura della tomba nel ’500. Alcuni poi, anche tra il clero, pensavano che si sarebbero trovate solo ragnatele. Allora, anche un po’ irritato da queste dicerie, padre Bommarco si rafforzò nella decisione della ricognizione. Raccontò più tardi che, il 29 dicembre 1980, di notte, in gran segreto, con l’aiuto di poche persone, aveva smontato la lastra di marmo dal lato sinistro della tomba: dietro aveva trovato un muretto di mattoni, sul quale venne praticato un piccolo foro, tanto da farci entrare una lampada elettrica. Vista la lunga bara ricoperta da un drappo, tutto fu rimesso in ordine.
Fino al 6 gennaio successivo.
Erano presenti solo le autorità invitate e un centinaio di confratelli. Appena la sera prima erano state avvisate dell’evento, via telefono, le fraternità della Provincia. Alle 19.00, dopo il momento di preghiera, la grande cassa venne estratta dal loculo. Avremmo scoperto poi che si trattava di quella originaria, approntata fin da subito dai frati dell’Arcella. Una volta tolti gli splendidi drappi dorati, si aprì la cassa. Al suo interno vi era una cassetta più piccola, inchiodata e legata da una funicella recante tre sigilli. Dentro la cassetta trovammo tre involti di seta rossa orlata d’oro, con un cartiglio cucito su ciascuno. Nel primo vi erano le ossa del Santo. Il secondo conteneva la massa corporis, cioè le ceneri del corpo. Più difficile fu capire cosa fosse il terzo involto, perché il cartiglio era molto rovinato: quel fagotto di panno scuro e duro era l’abito di Antonio.
Da quanto tempo non veniva aperta la tomba del Santo?
Noi tutti pensavamo che la nostra fosse la terza ricognizione, dopo la prima realizzata da san Bonaventura nel 1263 e la seconda ad opera del cardinale Guido di Boulogne-sur-Mer nel 1350. In realtà proprio gli studi scientifici del 1981 dimostrarono che nel 1350 c’era stata solo una traslazione: infatti i sigilli che chiudevano la cassa interna erano quelli del 1263, come dimostrò monsignor Claudio Bellinati.
Le indagini scientifiche provocarono altre sorprese?
Intanto lo stupore riguardava lo stato di conservazione dei reperti: fin da subito gli anatomisti sottolinearono quanto le ossa si fossero ben mantenute, anche grazie agli aromi (incenso, aloe e mirra) con i quali erano state trattate. Pensi che il profumo rimase percepibile ancora per una settimana dopo l’apertura della tomba. Ricordo poi la meraviglia dei falegnami: la cassetta interna sembrava opera moderna, con i suoi incastri a coda di rondine e così pochi segni lasciati dal tempo. L’elemento più commovente e suggestivo fu però rinvenuto nei giorni successivi: era l’apparato vocale di Antonio.
È quello conservato in un reliquario nella Cappella del tesoro?
Esattamente. Dopo l’apertura dell’arca, il corpo del Santo venne trasportato nella sala dei Vescovi, dove proseguirono i lavori di analisi. Nella massa corporis furono identificate le cartilagini che sostengono le corde vocali e altri elementi riconducibili all’apparato vocale. San Bonaventura nel 1263 rimase impressionato dall’organo più vistoso, la lingua incorrotta, ma era l’intero apparato vocale a essere stato preservato dal disfacimento, segno che Dio ha voluto concedere ad Antonio, come araldo del Vangelo, penna dello Spirito Santo.
Quali altre scoperte fu possibile compiere in quei giorni?
L’analisi dello scheletro permise di determinare le fattezze del Santo: era un uomo di un’altezza notevole per l’epoca (1,70 m), dal volto affilato anziché rotondeggiante come ce lo ha trasmesso la tradizione, dalle mani lunghe e sottili, e gran camminatore. L’esame delle ossa delle gambe ha rivelato l’abitudine a restare a lungo inginocchiato in preghiera, come dimostra l’ispessimento delle tibie. Altri segnali ci parlano di una strutturale carenza di ferro dovuta a un’alimentazione segnata dai molti digiuni. L’analisi delle costole confermò poi che Antonio soffrì di idropisia, effetto di quella malattia (febbre reumatica, o forse malaria) contratta in Marocco durante la missione e che lo accompagnò fino alla morte, avvenuta non a 36 ma a 39 anni secondo le indagini scientifiche. Ricordo con emozione i lavori sulla tunica del Santo: anticamente i frati venivano sepolti con l’abito e il cappuccio a coprire il capo. Quando, con tutte le precauzioni, l’esperta di tessuti svolse l’involto, nel cappuccio trovammo un ciuffo dei capelli di Antonio, di color nero intenso, come si conviene a una persona nata sulle sponde dell’Atlantico.
Nel 1981 ricorrevano anche i 750 anni dalla morte di Antonio.
Infatti la ricognizione e la partecipazione popolare furono un modo per celebrare l’evento. Si è calcolato che nel mese di febbraio siano affluiti in Basilica un milione di pellegrini, tanto che si decise di rimandare di quindici giorni la chiusura della tomba, in un primo momento fissata per il 15 febbraio. Non ci aspettavamo una risonanza simile: si rendevano subito disponibili i migliori periti di ciascuna disciplina, l’attenzione era altissima a livello mondiale, i devoti si affollavano in lunghe code fuori dalla Basilica. C’è stata un’adesione straordinaria, con tante manifestazioni di pietà, di carità, di senso cristiano. Ciò ha prodotto grandi frutti spirituali: noi frati li abbiamo raccolti, ma i meriti sono da attribuire all’amato sant’Antonio.