La scuola del possibile
Ne sentirete parlare come di una scuola a tutti gli effetti. Ma anche come di una discarica scolastica che ricicla chi, in altri percorsi, non ce la fa. Una porta d’accesso privilegiata al mondo del lavoro, ma anche un riformatorio per casi difficili. Un argine alla dispersione scolastica, ma anche un parcheggio per assolvere all’obbligo di istruzione. Un’eccellenza che coniuga ascolto e proposta, concretezza e studio, ma anche una scuola di serie B, il gradino più basso nella scala gerarchica dell’istruzione. Infine: un settore in grande ascesa, con sempre più iscritti, ma anche in profonda crisi, che rischia di chiudere i battenti per carenza di finanziamenti.
Tutti questi binomi, al di là di esagerazioni e preconcetti, hanno del vero, si completano l’un l’altro e cercano di presentare la complessità di un ambito nevralgico per il sistema Italia: l’istruzione e formazione professionale (Iefp), che coinvolge circa 315 mila allievi, pari al 10 per cento dei 14-17enni italiani. Un record, frutto di una crescita costante negli ultimi 15 anni. Basti pensare che questo àmbito nel non lontano 2009-’10 contava appena 165 mila iscritti.
Ma che cosa si nasconde dietro la sigla Iefp? Per capirlo bisogna allargare lo sguardo a tutte le superiori. Nel nostro Paese, la scuola secondaria di secondo grado si divide in due segmenti di pari dignità. Il primo è l’Istruzione, di competenza statale, comprendente licei, istituti tecnici e istituti professionali che rilasciano il diploma quinquennale, gestiti da scuole statali o paritarie. Il secondo è, appunto, l’Istruzione e formazione professionale, responsabilità delle Regioni. Che non hanno scuole proprie, ma da sempre si appoggiano su Enti accreditati – la gran parte di ispirazione cattolica, gestiti dall’Enaip (Ente nazionale Acli per l’istruzione professionale), dai salesiani... – e, da qualche anno, in via sussidiaria, sugli Istituti professionali di Stato. Il quattordicenne che sceglie l’Iefp può conseguire in 3 anni una delle 22 qualifiche professionali (del tipo operatore della ristorazione, meccanico...) o, in 4 anni, uno dei 21 diplomi professionali (tra cui tecnico elettronico, dell’abbigliamento...). Il diplomato può poi, volendo, proseguire gli studi nell’Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts) o rientrare nell’Istruzione.
I percorsi sono regionali Perché questo ancoraggio regionale? Per valorizzare il legame col territorio, centrando i percorsi di Iefp sulle esigenze del locale mercato del lavoro. Una scelta che ha ripercussioni sugli esiti occupazionali, più alti di qualsiasi altro segmento di formazione. L’altra faccia della medaglia è però una presenza a macchia di leopardo nella mappa italiana. Così, se alcune aree sono ben equipaggiate, in particolare quelle del Nord, scendendo lo Stivale poco si trova. In zone in cui ci sarebbe un gran bisogno di percorsi di qualificazione – per contenere la disoccupazione giovanile, per coinvolgere gli adolescenti in percorsi di crescita umana e professionale, per abbattere la dispersione scolastica – questa risorsa latita.
Abbiamo cercato di capirne il perché con Paola Vacchina, presidente di Enaip e di Forma, l’associazione che raccoglie i principali enti storici del settore, in rappresentanza di oltre seicento centri di formazione professionale frequentati da circa 130 mila studenti. «Le motivazioni per cui l’Iefp non è ancora un’offerta garantita in tutte le regioni hanno radici storiche profonde. Sicuramente questo ritardo strutturale non aiuta il nostro Paese ad assicurare pari dignità alla Iefp e nega un diritto-dovere a molti giovani. La geografia a macchia di leopardo corrisponde a quella delle fragilità delle politiche regionali, oltre che della diversità delle economie locali. Ma ad essa negli anni scorsi non hanno mancato di dare il loro contributo negativo politiche nazionali dell’istruzione e del lavoro tiepide, se non del tutto indifferenti alla formazione professionale, soprattutto per pigrizia intellettuale nella comprensione della realtà. Il risultato è che negli ultimi anni Piemonte, Lombardia e Veneto da sole offrono la metà dei percorsi Iefp esistenti sull’intero territorio nazionale. In Sicilia il sistema regionale era molto esteso, almeno per numero di addetti, ma da tempo è in crisi. È urgente una sua ricostruzione e una rimozione di tutte le storture che l’hanno portato al fallimento».
Sussidiarietà o sostituzione? Da qualche anno, non sono più solo gli Enti accreditati a proporre i percorsi di Iefp, ma anche gli Istituti professionali statali. Semplificando, l’idea è: dove la Regione non riesce a organizzarsi, la scuola statale colma il vuoto, in via sussidiaria e straordinaria. In realtà, questa formula sta diventando ordinaria, perché, a livello di allievi, siamo a 130 mila iscritti nei Centri accreditati e 185 mila negli Istituti statali (dal XIII Rapporto Isfol 2015).
Tutto bene? Fino a un certo punto, come sottolinea Giuseppe Tacconi, salesiano, ricercatore e professore aggregato del dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona. «L’istruzione gestita dagli Istituti statali è formalmente identica, ma in realtà molto differente. Lo dicono alcuni dati. Ad esempio: nonostante si parli tanto di alternanza scuola-lavoro, solo il 21 per cento degli Istituti professionali ha un’offerta consistente di stage e tirocinio nel curriculum, mentre negli Enti è la prassi». Controprova: i qualificati che escono dai corsi delle Agenzie formative accreditate si inseriscono più rapidamente nel mondo del lavoro (55 per cento), rispetto a quanti escono dalle scuole (38 per cento).
È lo stesso Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori che fa capo al ministero del Lavoro, a mettere in luce le crepe del sistema, nell’indagine già citata: «Piuttosto che il principio di sussidiarietà, si è affermato un principio di progressiva sostituzione dei percorsi svolti presso gli Istituti professionali di Stato rispetto a quelli realizzati presso i Centri accreditati. Permane dunque la perplessità che i percorsi Iefp possano essere realizzati in molti territori unicamente dagli Istituti professionali, che non sono sempre apparsi in grado di condurre a successo formativo gli allievi con maggiori difficoltà e i cui esiti occupazionali continuano a risultare inferiori a quelli usciti dalle istituzioni formative. Giova ricordare, infatti, come l’esperienza delle istituzioni formative sui fronti antidispersione, rimotivazione e recupero dei soggetti deboli, sull’uso delle metodologie didattiche attive nonché sulla progettazione e valutazione per competenze abbia prodotto in questi anni risultati particolarmente interessanti, sia in termini di successo formativo degli allievi sia sul fronte dei costi dei percorsi».
I paradossi dei finanziamenti Sull’ultima questione sollevata dall’Isfol, quella dei costi, vale la pena soffermarsi. Ci sono due paradossi. Il primo: a fronte di un migliore successo su tutti i fronti, per le casse dello Stato un adolescente che si iscrive a un percorso Iefp in un Centro accreditato costa il 30 per cento in meno del suo coetaneo iscritto ad analogo percorso nella statale. Dov’è la stranezza? Nei capitoli di spesa. Infatti la Regione non paga nulla per un ragazzo della statale: ci pensa, appunto, lo Stato. I traballanti bilanci regionali risparmiano, mentre quelli statali non solo si accollano il costo, ma anche maggiorato, e non di poco.
E a pagare di più, alla fin fine, siamo noi cittadini con le nostre tasse. Il gioco evidentemente non vale la candela, ma così sta andando. E qui ci si collega con il secondo paradosso: nonostante il boom di iscrizioni della Iefp, nonostante i 150 anni di storia, nonostante il ruolo sociale educativo economico del settore, questo mondo sembra sempre sull’orlo del burrone, a rischio di ulteriori tagli, licenziamenti e chiusura dei battenti. Com’è possibile? Spiega Tacconi: «Le Regioni faticano a pagare questa offerta formativa, e avendo individuato forme di finanziamento inadeguate, spesso sono incappate nelle maglie delle varie leggi di stabilità e nell’impossibilità di erogare fondi anche già stanziati. Il calo di investimenti grava su tutta la scuola, ma su questo segmento in modo particolare. A colpire è proprio la contraddizione che alla crescita esponenziale degli studenti fa corrispondere un’altrettanto esponenziale diminuzione dei finanziamenti».
Quello sguardo sul possibile La questione economica è seria, e tuttavia i veri giochi si fanno a un altro livello. «Il problema di fondo – sostiene Tacconi – è culturale. Nel nostro Paese sembra difficile attribuire al lavoro e ai percorsi d’istruzione collegati al lavoro la capacità di agire anche sullo sviluppo di competenze più generali. Invece la sfida è proprio questa: anni fa i percorsi erano un semplice accompagnamento all’inserimento lavorativo. Ora invece le Iefp sono un vero e proprio percorso d’istruzione che assume anche una valenza di formazione più generale del cittadino». E le scelte di tanti ragazzi lo confermano, con una prospettiva più «vocazionale» in crescita: il 46 per cento degli iscritti alla prima classe viene dalla scuola media, non da bocciature o da percorsi di fallimento. «È vero – prosegue Tacconi –, in questo settore si concentrano parecchie criticità, con ad esempio oltre il 14 per cento di stranieri, a fronte di una presenza ben più modesta nelle altre scuole. E poi funziona un po’ come discarica scolastica, si arriva qui spesso con percorsi dolenti, problematici…».
Nei Centri in molti trovano un’opportunità di ripartenza, un ambiente diverso, pratico, dove rimettersi in moto. Infatti il rischio, conclude Giuseppe Tacconi, «è la scolasticizzazione, che fa perdere la natura specifica di percorsi più destrutturati, più capaci di adattarsi alle esigenze dei soggetti, di garantire un accompagnamento, di avere un approccio molto centrato sul fare, sviluppando apprendimenti che assumono senso per gli allievi proprio perché non sono percepiti come astratti. A fronte di questa caratterizzazione didattica, si assiste al rischio di un’offerta, negli Istituti scolastici, che diventa la brutta copia della scuola».
Non è solo questione di impostazione generale, ma anche di come si pone il professore: «In alcune occasioni, l’attivazione di percorsi Iefp ha reso i docenti degli Istituti più sensibili, li ha costretti a cambiare anche il metodo. Ma nella maggioranza dei casi, i docenti dell’Istruzione professionale si sentono inadeguati nell’affrontare questi ragazzi. Hanno difficoltà nel gestire i gruppi, l’aula, e spesso si approda a una sorta di rinuncia: con questi non si può fare, diminuiamo le pretese… Non si riesce a impostare un percorso che sia sfidante e che accompagni il ragazzo nella crescita».
Alcuni studi hanno messo a confronto gli insegnanti degli Enti di formazione con quelli della scuola. I risultati sono interessanti: «È emerso che i docenti dell’Iefp hanno un certo grado di ostinazione, mentre nei colleghi dell’Istruzione alle prese con la stessa tipologia di utenza prevale, generalizzando, una forma di rassegnazione. Gli insegnanti dell’Iefp si prendono carico degli studenti e cercano di esplorare varie piste, provano e riprovano fino a trovare una via d’accesso. Un ex allievo ci ha detto: “Al Centro di formazione professionale ho incontrato gente che ha saputo vedere il possibile”. La sfida è non fermarsi a constatare, ma avere uno sguardo sul possibile che libera energie». L'INTERVISTAOstinati nel prendersi cura Per alcuni lavori la preparazione umana e professionale non basta. Se non hai anche grinta, passione, coraggio, ostinazione nel cercare il bene non vai lontano. Queste caratteristiche non difettano a Chiara Furlan, coordinatrice didattica dell’area giovani e famiglie del Centro Enaip di Legnago (VR), interpellata in rappresentanza di chi, nelle Iefp, si sporca le mani giorno per giorno.
Msa. Quali sono le parole chiave del tuo lavoro? Furlan. La prima è prendersi cura. Della persona, cioè dell’allievo, ma anche della sua famiglia. Lo accogli ancora prima dell’iscrizione, con un colloquio individuale nel quale cerchi di capire chi è e quali sono i suoi interessi, per offrirgli una formazione migliore. Spesso questi ragazzi partono demotivati… Negli anni che passano qui li aiutiamo a scoprire la loro autostima, a uscire da qui diversi.
E la seconda? Costruire il progetto adatto a ogni allievo, su misura. Non esiste la scuola giusta: esiste la scuola adatta. È come un vestito, devi trovare il tuo. Costa fatica a volte! Sono attenzioni fondamentali che rivelano anche la nostra matrice cristiana.
Quale rapporto si instaura con la famiglia? Cerchiamo di coinvolgerla. Al di là del coordinamento, io sono tutor: nei colloqui che i genitori hanno con noi si sentono più liberi di esprimersi. Accogliamo la famiglia, ma le chiediamo anche di essere presente nel percorso del figlio.
Quand’è che sei soddisfatta del tuo lavoro? Quando i ragazzi e le ragazze a fine anno o a fine percorso mi ringraziano, quando vedi che sei riuscita ad aiutarli a tirar fuori il bello che c’è in loro. È una funzione maieutica. Quel bello c’è, anche quando magari era l’allievo stesso a non crederci.
C’è chi vi reputa una discarica scolastica, l’ultimo gradino della formazione… Noi che ci lavoriamo dentro sappiamo di avere una funzione sociale. È vero. Dov’è il problema a essere con gli ultimi? Il problema sono i pregiudizi. Dobbiamo vedere l’ultimo gradino come un trampolino di lancio. L’ultimo gradino ha le molle, ci salto sopra e mi slancio verso il mio futuro. Siamo una discarica scolastica? D’accordo, ma siamo il punto di partenza. Il gradino più basso da cui ripartire.