La sfida italiana all'eccellenza
Il senatore Edoardo Pollastri, 74 anni, è il parlamentare eletto all’estero a rappresentare il Brasile, Paese dove Pollastri – nativo di Alessandria – si è stabilito trent’anni fa distinguendosi dapprima come manager di successo e, nell’ultimo decennio, come presidente della Camera Italiana di San Paolo. Dall’ottobre 2006 è anche presidente di Assocamerestero, organismo che raggruppa le 73 Camere di Commercio italiane presenti in 48 Paesi del mondo. A dieci mesi dall’inizio del suo mandato (è stato eletto nella lista dell’Ulivo), lo abbiamo incontrato per un primo bilancio di questa sua esperienza nel mondo della politica italiana.
Meneghini. Senatore Pollastri, qual è stato l’impatto con il mondo della politica italiana?
Pollastri. In Brasile, con il voto elettronico, tutto quel baccano che si è fatto in Italia sui presunti errori nello spoglio elettorale, non ci sarebbe stato. Anche questo dimostra quanto il Brasile sia un Paese moderno, in certi settori addirittura all’avanguardia nell’utilizzo delle nuove tecnologie.
Ma, tornando a Roma, devo dire che non ho avuto alcun problema ad ambientarmi. Sarà perché, come vice-presidente di Assocamerestero, conoscevo già molto bene l’ambiente capitolino e quello della politica italiana; ma sarà anche perché ho la fortuna di abitare in una casa di mia proprietà che decidemmo di acquistare anni fa quando mia figlia venne nella capitale a frequentare l’Università. Dunque a Roma mi sento a casa, in tutti i sensi.
Roma e San Paolo sono città molto diverse fra loro. Le capita di provare nostalgia per la metropoli paulista dove ha vissuto per molti anni?
Si dice – e in qualche modo corrisponde alla realtà – che San Paolo sta a Milano come Rio de Janeiro sta a Roma.
Del Brasile mi mancano due cose: gli immensi spazi e il calore della gente. Non che gli italiani siano scorbutici, ma di sicuro in Brasile i rapporti interpersonali rivestono una grande importanza e non posso negare che la gente brasiliana sia più affettuosa e calorosa.
Molti dei suoi colleghi deputati e senatori eletti all’estero sono rimasti colpiti dal fatto che la cosiddetta «altra Italia» nel mondo sia poco conosciuta, anche fra i banchi di Palazzo Madama e di Montecitorio. Ha avuto la stessa impressione?
Confermo in pieno. Il grande patrimonio umano e culturale, e la presenza nel tessuto imprenditoriale e politico dei nostri connazionali che vivono all’estero, è materia in larga parte sconosciuta tra i miei colleghi senatori. E immagino che lo stesso si possa dire, in generale, dell’opinione pubblica italiana. La responsabilità di questo «vuoto di memoria» è dei passati governi – non tanto di quello che ci ha preceduto, per la verità – per i quali il mondo degli italiani all’estero rappresentava più un «problema» che una risorsa da valorizzare.
Sono fermamente convinto che un ruolo fondamentale, nel necessario processo di avvicinamento fra le «due Italie», dovrà rivestirlo la cosiddetta informazione di ritorno. Mi riferisco principalmente alla Rai, ma anche a tutta la carta stampata. Solo quando programmi radiotelevisivi e agenzie di stampa inizieranno a dare maggiore risalto alle notizie che hanno per protagonisti gli italiani e gli oriundi italiani che operano e lavorano nel mondo, si comprenderà quale risorsa abbiamo a nostra disposizione.
In Senato, lei rappresenta anche il gran numero di oriundi italiani – quasi 30 milioni – che vivono in Brasile. Che cosa ne pensa della cronica carenza di personale nei nostri consolati che provoca tempi di attesa lunghissimi nei processi di riconoscimento della cittadinanza italiana?
Ne ho già parlato con il vice-ministro Danieli in più occasioni. La mia posizione, sull’argomento, è molto chiara: dal momento che l’attuale legislazione offre la possibilità ai discendenti dei nostri connazionali di ottenere la cittadinanza italiana, naturalmente se in possesso dei requisiti previsti, sorge in capo a questi soggetti un diritto. Bisogna fare in modo che il cittadino, questo diritto, lo possa esercitare. Trovo assurdo che un «italiano in pectore» debba aspettare diversi anni per ottenere lo status di cittadino a tutti gli effetti. Io vedo un’unica soluzione: bisogna costituire una task-force di impiegati, preferibilmente reclutati direttamente in Brasile, che smaltisca nel più breve tempo possibile la gran mole di fascicoli che giacciono nei nostri consolati. Una volta evaso il pregresso, chi in futuro chiederà di diventare cittadino italiano potrà ottenere il passaporto in qualche mese, e non in qualche anno.
Il ministro degli Esteri, D’Alema, ha dimostrato di guardare con grande attenzione al mondo latinoamericano, dopo che il precedente governo aveva forse un po’ snobbato quest’area geografica.
Osservo con grande interesse la fitta rete di rapporti che D’Alema sta intessendo con i Paesi del Sud America, e la trovo un’ottima scelta di politica estera. Sono convinto, infatti, che il Brasile sarà, nell’immediato futuro, uno dei grandi players mondiali assieme a India e Cina. Certo, ci sono ancora importanti problemi da risolvere, primo fra tutti il grande divario sociale. Ma la politica del Governo Lula, a mio avviso, sta andando nella giusta direzione.
D’altra parte, il Brasile ha enormi risorse naturali, materie prime in grandi quantità, dispone di una tecnologia avanzata ed è all’avanguardia nella ricerca in settori che saranno sempre più cruciali, come ad esempio i biocombustibili. E in tutto ciò non dobbiamo dimenticare che molte tra le principali aziende brasiliane sono state fondate e sono ancora in mano a famiglie d’origine italiana.
Non è un buon periodo per il nostro Paese. Si dice che l’Italia abbia perso lo smalto di un tempo, principalmente per mancanza di competitività. Come, secondo lei, il nostro Paese potrà uscire da questa situazione?
L’Italia si è un po’ seduta, è vero. Ma vedo anche confortanti segnali di ripresa. Dal mio punto di vista la sfida mondiale, noi italiani, dobbiamo giocarcela tutta sul campo dell’eccellenza. I cinesi ci copiano, e riescono a produrre a prezzi molto inferiori ai nostri? Chiuderci a riccio non servirebbe a nulla. Dobbiamo alzare il tiro, realizzando prodotti di gran lunga migliori – dal punto di vista tecnologico, qualitativo e di design – di quelli che ci hanno copiato. Starà a loro rincorrerci ancora una volta. La Cina può essere anche una grande opportunità per i nostri mercati.
Ritengo, inoltre, che le liberalizzazioni del ministro Bersani facciano bene all’Italia. Ci sarà qualcuno che si lamenta, ma se vogliamo crescere, non possiamo in alcun modo accettare rendite di posizione. La crescita e l’affermazione dei marchi italiani nel mondo, infine, non possono che passare attraverso innovazione e sviluppo, supportati da adeguati strumenti finanziari e logistici.
Come ricordava spesso il presidente della Repubblica, Ciampi, nei suoi discorsi, dobbiamo far venir fuori l’italianità, sinonimo di quella creatività che ci ha reso unici al mondo.
Sono passati quasi due anni dalla scomparsa di Danilo Longhi, indimenticato presidente di Unioncamere e di Assocamerestero. Che ricordo ne conserva?
Danilo è stato e continua ad essere per me e per tutti coloro che hanno avuto modo di lavorare con lui, un grandissimo esempio. Era un uomo dalle straordinarie capacità, che ha saputo imprimere una visione ampia e moderna al sistema camerale italiano. Tanta era la stima in Longhi che abbiamo deciso di non sostituirlo nella sua carica di presidente nemmeno dopo la malattia, quasi illudendoci in quella ripresa che purtroppo non c’è stata. Fu proprio lui, all’epoca, a volermi fortemente come vice-presidente dell’Associazione, trascinandomi in questa coinvolgente avventura. Oggi che ho l’onore di sedere al suo posto, lo ricordo con grande affetto come uomo e, con profonda stima, sotto il profilo professionale.