La Storia siamo noi

Poeta, pittore, scrittore, conferenziere, ex docente universitario, ex vice-console onorario d'Italia. Premiato per le sue pubblicazioni, risiede da qualche anno a Vancouver, nella British Columbia.
22 Giugno 2010 | di
Vancouver
Dal Mediterraneo al Pacifico, il lungo cammino non è stato facile per Diego Bastianutti, quando era un esule ragazzino che, a distanza di qualche decennio, dichiara: «amo la vita, l’amore, gli amici, amo leggere, scrivere (se ho qualcosa da dire), dipingere, amo la musica, viaggiare con mia moglie, giocare a tennis, nuotare, veleggiare».
Zampieri. «Ognuno di noi possiede la storia del proprio passaggio su questa terra, una storia intima, la cui continuità, il cui significato, è la sua vita stessa. Ognuno di noi deve dunque raccontare la propria storia». Sono parole sue, professor Bastianutti, citate da uno dei suoi molti scritti. Può offrirci un sunto di questa sua storia?
Bastianutti.
Io sono un nomade, figlio di nomadi. Nacqui prima della Seconda Guerra Mondiale a Fiume, allora in Italia; oggi si chiama Rijeka, e si trova in Croazia. La mia città era poliglotta. La mia piccola «patria» era il territorio della Venezia Giulia che l’Italia perse alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e che 350 mila esuli abbandonarono. Fiume è la città nella quale io e i 60 mila italiani che la lasciarono, non ritorneremo a vivere mai più, essendo stati forzati a fuggire dalla pulizia etnica e dal terrorismo di Stato lanciato contro i cittadini italiani dall’allora regime comunista. Nel 1947 la mia famiglia optò per l’Italia. Ci stabilimmo in Liguria, ma nel 1952, visto che lo Stato italiano non aveva ancora riconosciuto la nostra opzione, decidemmo di emigrare come «DP». Dopo un mese di esami medici e politici nel campo americano di Bagnoli, fummo accettati dagli Stati Uniti. Viaggio in treno da Bagnoli a Bremmen Haven, e poi a bordo di una nave Liberty, la General Sturgis, fino a New Orleans, 15 giorni di traversata in pieno inverno.
Stavo per compiere 13 anni. Venni quindi sradicato proprio quando, di solito, si sta formando in un adolescente la propria identità, e mi vennero a mancare le amicizie della gioventù. L’arrivo in una nuova terra è sempre un trauma; e anche se l’emigrante riesce a integrarsi, non sarà mai assimilato. L’assimilazione richiede l’esperienza di un completo ciclo vitale nel nuovo Paese. L’emigrante deve rinunciare a una parte della propria individualità, cultura e lingua. Per me Fiume è quindi diventata «la città dei sogni», «la città della memoria». Ma la memoria tende a creare una città ideale che non è mai esistita, una città dove ci sarebbe piaciuto vivere. Chi come me appartiene a una doppia cultura, è condannato a vivere in «una terra straniera» dentro se stesso. Per moltissimi anni la mia è stata una patria della mente, mentre cercavo la mia identità, un luogo di appartenenza. Ho dovuto inventarmi un passato, perché non sono i fatti a dirci la verità: i miti e le storie sono capaci di colmare la distanza fra l’inizio e la fine, dando un significato alla nostra esistenza in questo mondo.
Nel corso della sua carriera accademica, lei si è occupato di lingua e letteratura spagnola, di lingua e cultura italiane. Come vede, in questo momento, sia le une che le altre al di fuori dei confini dei rispettivi Paesi d’origine?
In Canada lo studio della lingua italiana, a livello universitario, non è più quello della fine degli anni Ottanta. La letteratura oramai viene studiata in grosse Università come Toronto e Montréal che offrono il Ph.D. Nelle altre Università, la letteratura viene offerta in inglese dai Dipartimenti di lingue straniere, quando non dallo stesso Dipartimento di inglese. La società nordamericana non è propensa allo studio di lingue che non siano di chiaro beneficio pratico ed economico. Di conseguenza, pochi licei offrono corsi di lingua italiana, e non sono mai obbligatori. Ciò limita il numero di iscritti ai corsi di lingua italiana nelle Università, e tale panorama non offre sbocchi di lavoro per i laureati in italiano.
É evidente che l’interesse per la lingua e la cultura dipende dall’immagine che lo Stato italiano sa dare di sé a livello nazionale e internazionale: dalle arti alla scienza, dall’economia alla politica. Ci sono ombre ma anche luci in questo panorama, e le luci sono offerte dagli Istituti Italiani di Cultura che si prodigano per offrire programmi ad alto livello in tutti i campi dallo scibile prodotto dagli italiani. Grande è pure il contributo dei cervelli in fuga dall’Italia, in virtù del prestigio e della stima conquistati nelle maggiori istituzioni di ricerca. Non meno importanti sono scrittori e poeti italocanadesi di seconda e terza generazione affermatisi nel mondo letterario canadese, fino a pochi decenni fa dominato da scrittori anglofoni e francofoni. Le loro opere sono un ponte fra le due realtà, un punto di vista originale che fa lezione ai due mondi.
Lei è stato vice-console onorario d’Italia in Ontario: quali sono state le principali iniziative a favore dei residenti italocanadesi?
Nei quasi 18 anni di attività ho cercato di coinvolgere la collettività quanto più possibile. Per me era importante che gli italiani della circoscrizione avessero l’opportunità di arricchire lingua e cultura partecipando a decisioni e iniziative, evitando la solita imposizione dall’alto. Accettando l’incarico, decisi che avrei rappresentato «tutti» gli italiani, senza distinzione di origine, di classe o di posizione economica. Non volevo calcare i «vizi italici» di favoritismi e campanilismi assurdi. Fra le varie iniziative ne ricordo alcune: la fondazione della sezione locale della Società Dante Alighieri, la biblioteca di letteratura italiana per la collettività, un programma radiofonico italiano, un notiziario televisivo settimanale, vari concerti di artisti in tournée nordamericana, e poi teatro, cinema, feste nazionali, la raccolta di oltre 70 mila dollari a favore dei terremotati in Friuli-Venezia Giulia, borse di studio per figli di emigrati italiani, voli in Italia per coppie di anziani, raccolta di fondi per una lapide commemorativa dedicata a decine di operai italiani morti tragicamente durante la costruzione di una ferrovia. E ancora il Comitato sociale per i pensionati, il capitolo dell’Enotria per i cultori del vino, le continue visite ufficiali nei cinque penitenziari della zona.
Italianità e italicità: quale dei due termini le appare più adatto a esprimere conoscenza e presenza della cultura e dell’identità italiana all’estero?
Per me «italianità» si riferisce a lingua, cultura, valori, costumi e cittadinanza che fanno parte della mia vita fin dalla nascita. Per mantenere e dichiarare la mia «italianità» lasciai le nostre terre per andare in ciò che restava dell’Italia dopo l’ultima guerra. Alcuni anni fa, un caro amico mi disse: «Diego, scendi da quella croce. Guarda che puoi usare il legno per cose più importanti e belle». Aveva ragione: se avevo perso molto, era anche vero che avevo guadagnato molto di più girando il mondo e diventando parte dell’italicità globale. «Italicità» è un concetto più vasto, più esteso e quindi più ricco dell’italianità. Italicità fa riferimento a una comunità extra-territoriale, trans-nazionale presente in tutto il mondo che, secondo varie stime, va dai 60 ai 200 milioni di persone: una comunità globale composta da quanti sono di origine italiana e dagli «italofili». La globalizzazione – anche attraverso Internet – ci dà la possibilità di moltiplicare e intensificare incontri reali e virtuali. I radioamatori di onde corte di ieri sono gli internauti di oggi: una diaspora globale intessuta di valori, interessi e conoscenze di radice italica, e molto più. L’italicità non è più un’identità fissa nel senso etnico, linguistico o politico, ma un processo aperto e continuo di vero e proprio «meticciato» basato sui valori dell’arte, della scienza, della cultura, del sentimento di umanità piuttosto che di utilità.
Diego Bastianutti è relativamente nuovo a Vancouver, e già costituisce un punto di riferimento importante per la comunità sia italiana che multiculturale. Quali proposte o progetti vorrebbe vedere realizzati, specialmente perchè i giovani ricevano da noi e apprezzino il valore della memoria storica?
Il tempo è diventato un predatore per noi di una certa età, ma anche per i giovani, seppure in modi diversi, e noi non possiamo aspettarci che i giovani vengano da noi, siamo noi che dobbiamo andare loro incontro, stimolarli, incuriosirli, far loro amare la Storia con la «S» maiuscola attraverso quella con la «s» minuscola, cioè personale e intima. È più facile dirlo che farlo. Dobbiamo coinvolgere i giovani nel recupero della storia, facendo capire che senza quella nostra storia, loro sono come corpi senza ombra. Dobbiamo invogliarli a raccogliere i racconti dei genitori, dei nonni, invitarli a trascriverli, lasciarsi ispirare per racconti, poesie, canzoni. Non possiamo dargliele noi già confezionate, devono farsene responsabili, sentirne la soddisfazione. Inviterei gli anziani che sanno navigare nelle acque delle nuove tecnologie a farsi presenti attraverso blogs, Facebooks, e varie forme di comunicazione globale. Inviterei figli e nipoti ad avviare progetti di ricerca genealogica delle loro famiglie, ma anche nel senso più vasto delle loro origini più remote usando il sito https://genographic.nationalgeographic.com/genographic/lan/en/participate.html
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017