La strana inquietudine di un cristiano
L'aveva trovata in età matura la sua strada, don Andrea Santoro, seguendo la «strana inquietudine» - come l'ha definita il cardinale Ruini - che, a chi non lo conosceva bene, poteva sembrare un'instabilità di carattere, ma che invece era l'inquietudine del cristiano, quella spinta interiore a cercare risposte nel profondo dell'anima. L'aveva trovata la strada, don Andrea, e l'aveva al fine condotto da una «comoda» parrocchia di Roma all'Anatolia, nel Nord della Turchia, terra ricca di storia, ma ormai povera di cristiani. E in quella terra don Andrea ha incontrato la morte, a sessant'anni, per mano di un sedicenne musulmano, il 5 febbraio: due colpi di pistola alle spalle mentre pregava nella sua chiesa di Sancta Maria, a Trabzon.
La morte non l'aveva cercata, ma certo don Andrea l'aveva messa in conto, perché consapevole che tra quella gente il suo slancio apostolico avrebbe potuto scontrasi con limitazioni e ostilità . La morte, dunque, era per lui una possibilità concreta. Ma era altresì convinto che una presenza fatta di preghiera e di testimonianza di vita avrebbe parlato da sé, sarebbe stata segno e fermento di amore e riconciliazione.
Era un'attrazione forte quella che aveva rapito don Andrea. Già nel 1980 il sacerdote aveva vissuto un periodo a Gerusalemme e nel 1993-94 aveva trascorso un anno sabbatico, guidando pellegrinaggi dell'Opera Romana in Medio Oriente. Era attratto da quelle terre visitate da Dio. L'affettuosa insistenza dell'allora vicario apostolico dell'Anatolia, monsignor Franceschini, rese possibile il realizzarsi del suo desiderio: la partenza come sacerdote fidei donum , mandato da Roma a rinverdire la presenza di Cristo in quelle terre dove la fede cristiana aveva piantato robuste radici col tempo inariditesi.
«Cercavo un luogo dove scendere alle radici del mio cuore e delle ragioni della vita - aveva scritto ricordando i primi viaggi -. Cercavo una vicinanza con Dio e pensavo di poterla trovare dove Dio aveva cercato una vicinanza con noi... Ecco, questa è la parola giusta: cercavo un luogo in cui abitare con Dio e avere il tempo per ascoltarlo, per parlargli, per capirlo, per farmi prendere in custodia da Lui».
Con queste premesse, non importava che il suo gregge fosse di appena otto o nove persone - come aveva scritto al Papa pochi giorni prima di essere ucciso - perché sentiva «suoi» anche i musulmani di Trabzon. Io mi sento prete per tutti - aveva confidato non molto tempo fa -, perché questi sono i figli che Dio ama: musulmani, ebrei, cristiani...».
Don Andrea non era un eroe. Il suo, come ha sottolineato il cardinale Ruini nell'omelia funebre, era il «coraggio cristiano, quel tipico coraggio di cui i martiri hanno dato prova, attraverso i secoli, in innumerevoli occasioni: un coraggio cioè che ha la sua radice nell'unione con Gesù Cristo, nella forza che viene da lui».
Dinanzi alla morte di don Andrea, quella «strana inquietudine» che non l'abbandonava mai assume una prospettiva nuova, mostrandosi come l'inquietudine di chi prende tremendamente sul serio Gesù Cristo. Anzi la sua stessa morte - nella quale ricorrono tutti gli elementi costitutivi del martirio cristiano, come ha detto il cardinale annunciando di voler aprire il processo di beatificazione e canonizzazione - assume una valenza particolare, in tempi di incombente «scontro di civiltà ». Provocata da un atto di odio, non ha alimentato pur comprensibili chiusure, ma è divenuta straordinario messaggio di perdono e di speranza.
Vista con gli occhi della fede, la morte di don Andrea, testimone del dialogo, si presenta come il miracolo di un amore più grande, olocausto offerto per un mondo pacificato. Del resto, questa è stata la preghiera di Benedetto XVI: «Il sacrificio di questo silenzioso servitore del Vangelo contribuisca alla causa del dialogo fra le religioni e della pace tra i popoli».