La zattera della continuità
Ho una cara vecchia amica ultraottantenne. Da qualche anno è alle prese con una serie di traversie che hanno messo in pericolo il suo equilibrio fisico e psichico. La storia è lunga. Dopo una vita di affetti, di impegni sociali e interessi culturali, si è trovata a vivere da sola, quasi immobilizzata, in una piccola casa con il solo aiuto della solita badante ucraina. Circondata però da tanti libri e sorretta da alcuni punti di riferimento che scandivano i suoi giorni, i suoi mesi, i suoi anni: la visita settimanale a turno dei suoi tre figli, la telefonata, anche questa a cadenze regolari, del suo ex marito con il quale, dopo anni di contrasti, era riuscita a stabilire un rapporto di civile e reciproca sopportazione. Insomma, una vita certo non esaltante ma tranquilla, resa tale dal ritmo dei pochi eventi che si presentavano con prevedibile regolarità e continuità.
Un’improvvisa caduta, con la conseguente rottura del femore, l’ha costretta a un prolungato soggiorno in ospedale. Le telefonavo spesso e, con mia grande sorpresa, la sentivo sempre più serena di quanto mi sarei aspettata, quasi tonica. Alle mie insistenti domande circa la possibile data del suo rientro a casa, rispondeva evasivamente per poi concludere, quasi sempre, con un: «Va bene così».
Dopo qualche tempo è tornata a casa e, di nuovo, mi sono sorpresa: il suo umore era notevolmente peggiorato. Con voce a tratti smarrita e a tratti irata cercava di comunicarmi il suo disagio senza riuscire a identificarne le ragioni. «Ma non sei contenta di essere tornata a casa?» le chiedevo con meravigliata insistenza. «Per nulla» mi rispondeva aggressiva. «Ma perché sei più triste e scoraggiata di prima?» continuavo io. «Non so, forse si è rotta la continuità» mi rispondeva con voce spenta.
Finalmente ho capito l’origine del suo scoramento, dovuta alla rottura di un equilibrio faticosamente conquistato. I ritmi fissi e bene scanditi della sua giornata in ospedale – visita medica, esercizi di riabilitazione, pasti – avevano finito per costituire dei punti di riferimento insostituibili nella sua vita smarrita. Si era sentita rassicurata nelle sue debolezze e disabilità, affidata a mani esperte che sapevano che cosa fare di lei. Ora tutto cominciava da capo.
Mi sono resa conto che esistono età della vita – e la vecchiaia è una di queste – nelle quali si ha particolarmente bisogno di abitudini, di routine a cui ancorare la propria identità spesso in pericolo. E curiosamente ciò accade sia nei vecchi che nei bambini, entrambi bisognosi di scansioni temporali che li rassicurino. Avete notato, per esempio, come i bambini prima di andare a letto abbiano bisogno che tutto si svolga secondo un copione prestabilito, senza il quale non riescono a prendere sonno? O come, quando viene loro raccontata una storia, pretendano che i fatti vengano esposti sempre con le medesime parole e la medesima sequenza? Lo stesso per i vecchi, che non accettano deviazioni da itinerari noti e prestabiliti. Quanti per esempio, pur ridotti all’inabilità, si rifiutano di ospitare nella propria casa qualcuno che li accudisca, con grande disappunto dei figli che si sentono gravati da eccessive responsabilità!
Ciò non accade in altre epoche della vita – nell’adolescenza, nella giovinezza, nella maturità – quando, al contrario, spesso mal si sopportano le pastoie della quotidianità e si fa prepotente il desiderio di romperle. Insomma, se evadere può far bene ai giovani, può far male ai vecchi. La vicenda della mia amica mi ha sollecitato però anche un’altra riflessione: quella della necessità che ognuno di noi, nel corso degli anni, si prepari ad acquisire una flessibilità di pensieri, di affetti, di interessi che gli permetta di accettare gli inevitabili cambiamenti della propria esistenza senza smarrirsi.