L’alpino del deserto

Sopravvissuto a due guerre e alla fame, l’alpino Cristiano è un pezzo di storia vivente. Una vita di sofferenze, alleviata dalla fede. Da più di sessant’anni mantiene il voto di visitare la Basilica a ogni suo compleanno.
25 Novembre 2009 | di


Quassù Cristiano è un’istituzione: lo conoscono tutti, come le cime che qui hanno fatto da scenario alla prima guerra mondiale. Sa di essere un pezzo di storia e lui fa volentieri la sua parte con chiunque passi a trovarlo. A volte basta un semplice saluto perché lui prenda a raccontare. Lo fa con quel vigore dei «cimbri» di Asiago, così simile a quello di un altro celebre alpino divenuto scrittore, Mario Rigoni Stern, scomparso un anno fa. Ma l’alpino Cristiano non è un letterato né uno scrittore. Eppure in mano regge le sue memorie: tre fogli scritti di suo pugno con una grafia da scolaretto. «Qui ho annotato date, nomi e luoghi di tutta una vita, giusto par non desmentegarmei (dimenticarmeli)…». Alle pareti sono appesi gli articoli di giornale, le medaglie al valor militare e qualche sua foto che lo ritrae protagonista delle adunate nazionali alpine. Stenta a trattenere l’orgoglio e gli scappa un sorriso sotto i baffetti grigi mentre si indica nelle foto. E poi snocciola i ricordi: parole ricche di emozioni e di esperienze, sullo sfondo, due secoli e due guerre. «Niente male!» esclamo. «Così si capisce quanto so vecio…» mi risponde lui.
L’incontro con la storia e la memoria qui ha ancora il profumo del fieno raccolto e stipato nel fienile attiguo alla povera cucina, la cui finestra si apre sul bosco e sulla valle esattamente come allora. In pochi metri quadrati Cristiano mangia, dorme e rivive nella sua mente le lontane esperienze. Sul tavolo, sopra una tovaglia cerata, è poggiato il suo cappello da alpino: un cimelio di guerra, color sabbia, con la penna consunta. «È tutto originale – precisa –, compresi i rinforzi in sughero e gli occhiali, poco funzionali, che mi servirono per fronteggiare i deserti durante la campagna d’Africa del 1935. È tutto ciò che mi è rimasto di quel periodo, assieme a due croci di ferro come decorazioni militari». Un tesoro che non abbandonerà mai. L’emozione di ascoltarlo si aggiunge alla certezza che si tratti di uno degli ultimi testimoni diretti di fatti che tra breve leggeremo solo sui libri di storia.

In quella cucina ritorna l’alpino Cristiano, poco più che ventenne. Nel 1935 è nel deserto dell’Etiopia, nel ’43 in quello libico. Ricordo dopo ricordo arriva all’8 settembre del 1945, quando è fatto prigioniero dai tedeschi in un campo vicino a Vienna. «In guerra ho avuto un’unica fortuna: essere rimasto sempre nelle retrovie, con l’incarico speciale di marconista (addetto cioè alle trasmissioni con l’alfabeto morse). Non ho mai sparato un colpo». A suo modo raccontava la guerra: «Ero lì, a qualche centinaio di metri dal fronte. Trasmettevo ai comandi le informazioni sui campi di battaglia. È per questo che mi sono salvato». A distanza di tanti anni rivive quel tempo, con la consapevolezza, però, di ciò che successe dopo: «Ricordo ancora l’eccitazione che noi giovani combattenti volontari avevamo prima di partire: l’ordine era di colonizzare l’Africa. Ci riempivano la testa dicendoci che avremmo compiuto un’impresa e visto grandi cose. Che avremmo fondato un impero! La guerra è sempre una cosa sporca, ma quando sei giovane spesso sei cieco e ti fidi di chi ti convince di essere un “coloniale” capace di portare tecnologia e sviluppo alle popolazioni indigene del Negus. Alla fine però, mi resi conto di essere partito povero ed essere tornato più povero di prima». Anni di errori ma anche di ideali: «Difendere la patria, anche a costo di enormi sacrifici, in questo credevamo. Cose che oggi i giovani sentono poco. Anzi, per niente!». La guerra, la fatica, la sofferenza non sono cose che si possono dimenticare: Cristiano le serba nella mente e nel cuore. A settant’anni di distanza ha tutto ancora di fronte agli occhi: «Giovani e incoscienti come eravamo, non avevamo paura. Non sapevamo nulla dell’Africa. Ci spedirono nel deserto male equipaggiati e con scarse provviste». Fatica ma anche meraviglia: «Ero un giovane montanaro che vedeva per la prima volta il mare».


«Sant’Antonio portame indrio»

Ed è proprio sul mare che per la prima volta teme di morire: «Nel 1935 in uno dei trasferimenti verso le coste africane, la nostra nave entrò in una spaventosa tempesta. Mi dissi che non avrei mai più rivisto le mie montagne. Fu allora che d’impeto invocai la protezione di sant’Antonio, con una preghiera che mi aveva insegnato mia madre… “sant’Antonio portame indrio!” (portami indietro). La ripetevo di continuo e insieme a me gli altri commilitoni. In guerra divenne la mia preghiera». Quella non era la prima volta che Cristiano incontrava la guerra: in un certo senso con la guerra lui ci ha convissuto fin da bambino. Nel 1915, quando le truppe austroungariche occuparono l’Altopiano, la sua famiglia fu costretta a migrare in un paesino della pianura, dove rimase per vent’anni da «sfollata». Ed è ancora la guerra a segnare il suo matrimonio: incontra Angelina, il grande amore, una paesana conosciuta da bambino. Si sposeranno fuori, da sfollati, perché a Rotzo non possono tornare. Pochi mesi di felicità e poi ancora la guerra. «Mi richiamarono al fronte, destinazione Libia. Ci rimasi tre lunghi anni». Il ritorno è rocambolesco: «All’indomani dell’8 settembre, con l’avanzata degli americani, la nostra ritirata diventò una fuga. A pochi chilometri da casa mia, quando già assaporavo il ritorno, i tedeschi mi presero in ostaggio e mi spedirono in un campo di lavoro vicino Vienna. Mi sentivo finito e mi aggrappavo alla preghiera di mia madre “sant’Antonio portame indrio”».
E Cristiano finalmente torna indietro. Ma quando arriva nel suo altopiano, tutto è distrutto e c’è la fame: «Una fame nera, a volte più brutta della guerra». Ritrova la moglie e finalmente ritorna a Rotzo: «Almeno lì potevo coltivare patate per sopravvivere... quante patate ho mangiato!». Sono passati tanti anni, Angelina non c’è più, la casa, la cucina, le montagne sono quelle di sempre. E sul tavolo c’è un cappello d’alpino sbiadito. «Ormai siamo rimasti in pochi e spariremo presto – dice – ma sappiamo che lasceremo in eredità ai giovani il nostro spirito...». Guarda il cappello, il suo tesoro, e dice: «È una delle cose più care che ho. Potrei lasciarlo ai figli o ai nipoti ma credo sia giusto che appartenga a tutti: lo consegnerò all’Associazione Alpini dell’Altopiano perché ci sia memoria».
Ma non è ancora giunta l’ora di appendere quel suo cappello al chiodo: eccolo allora indossarlo con fierezza nei due appuntamenti dell’anno ai quali non mancherebbe per nulla al mondo: le adunate nazionali degli alpini e la visita alla Basilica del Santo, fatta ogni anno il primo dicembre, giorno del suo compleanno per ringraziare il Santo «“che me ga portato indrio”. Gliel’ho promesso allora, davanti al suo santino, che se fossi ritornato vivo sarei andato a salutarlo per tutta la vita».
Un voto a cui Cristiano presta fede da oltre sessant’anni. La mattina del primo, all’alba, lascia le sue montagne e da solo in corriera arriva a Padova, nonostante gli acciacchi, che ogni anno sono più pesanti. Con un rituale tutto suo, prima si confessa e poi partecipa alla messa. Unico lusso: una pizza prima di risalire in corriera. Ogni anno la stessa fede e la stessa emozione. Buon pellegrinaggio e tanti auguri, caro vecchio alpino!
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017