L’altro siamo noi
Prato, Cina. Non è un errore, ma quando fra Fang Ji Ge, ops! scusate, Francesco, il giovane e toscanaccio superiore della comunità (ma l’altro frate, fra Roberto, non è da meno), mi dice con candore: «Non sono mai stato in Cina, ma ci vivo da cinque anni», non posso che trarre questa, seppur errata, conclusione geografica. Del resto, arrivare a Prato e inoltrarsi nel quartiere ormai abitato quasi esclusivamente da cinesi ti dà un senso di confusione: in pochi metri ti ritrovi scaraventato in un altro continente. Attraversi un confine neanche tanto invisibile, passando dalle insegne in italiano a quelle con gli ideogrammi cinesi.
L’impatto è ancor più straniante perché non si tratta di una «chinatown» a uso e consumo di turisti in cerca di emozioni esotiche: non vedo nessun tetto a pagoda. Ma una città viva, pulsante, qua e là persino caotica. Dove vivono uomini e donne che, come noi, sognano e faticano per una vita migliore.
C’è la signora con la borsa di plastica dalla quale spunta la verdura, con il dubbio, che le ronza nella testa, che questa costi troppo. O il ragazzino con lo zaino della scuola a spalle, e con la preoccupazione per gli esami nello sguardo. Solo che entrambi hanno gli occhi a mandorla.
Stakanovisti made in China
Questo è un pezzo di Cina ritagliato dalla patria d’origine e trapiantato tale e quale in questa città della Toscana. Che qui deve più che mai fare i conti con il mondo, che non bussa più ai suoi confini, ma le è ormai entrato letteralmente in casa. A Prato, produttivo distretto dell’industria tessile made in Italy, vivono circa 40 mila migranti cinesi, tra regolari e irregolari; di questi, solo una risicata minoranza è cattolica.
Ogni tanto l’incidente di turno solleva il velo che, normalmente, nasconde alla nostra attenzione questa realtà. Per il resto sono leggende più o meno metropolitane che riempiono il vuoto della nostra curiosità, spesso frutto di affrettate considerazioni piuttosto che di conoscenza della realtà. Perché è vero che il migrante cinese è qui unicamente per lavorare: per pagare prima possibile il debito che ha contratto per arrivare in Italia, e quindi per raggranellare, sempre in tempi rapidi, più soldi possibili per tornarsene definitivamente nella sua patria. In vista di ciò, risparmiare i soldi di cibo e affitto, vivendo letteralmente nel posto di lavoro, accelera notevolmente la realizzazione del suo «progetto migratorio». Che non prevede il «piantare radici» qui in Italia: perciò niente casa né integrazione né apprendimento della lingua. Ma perché? Se l’obiettivo è quello di guadagnare circa dieci volte tanto quello che avreste guadagnato nel vostro Paese per tornarvene lì il più in fretta possibile, a voi, in un Paese straniero, non verrebbe la tentazione di fare lo stesso? Perciò non è del tutto corretto affermare che sono «schiavi», almeno dal loro punto di vista. Senza volere per questo minimizzare assolutamente lo sfruttamento e la mancanza di qualsiasi garanzia lavorativa e sanitaria, che dal nostro punto di vista, invece, non è per niente accettabile.
È evidente, comunque, che in un progetto di vita così ridotto alla dimensione del lavoro, tutto il resto, vale a dire tutto ciò che rientra in una dimensione umana e spirituale, non trova un granché di spazio.
Segni per gli occhi che parlano al cuore
Dentro a tutto questo, a partire dal 2006, stanno alcuni frati francescani. Proprio per provare a «guardare» in maniera diversa, quel guardare che si fa con gli occhi tanto quanto con la testa e con il cuore. E per guardare in maniera diversa bisogna provare a «stare» in maniera diversa. «I frati non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani»: in queste poche righe di Francesco d’Assisi c’è tutto lo stile, la scommessa e le modalità persino concrete di questo modo diverso di stare in mezzo alla gente.
A cominciare dalla scelta abitativa, dedicata e affidata a S. Maria dell’Incontro: gli ex uffici di uno dei tanti laboratori del quartiere, in affitto. Giusto per le classiche quattro stanze che servono a formare un convento: refettorio, sala comune, dormitorio e cappella. Fa niente se la cappella è «a vista strada»: nel senso che solo la vetrina la separa dalla strada, per cui tutta la preghiera che i frati vi fanno è sotto gli occhi dei passanti. O se il dormitorio, per l’esiguità degli spazi, non prevede singole celle monastiche, ma uno spazio unico nel quale i frati dormono insieme. O se il refettorio è luogo di incontro per tutti: anche per l’amico cinese che, in compagnia della sua ragazza, vi si rifugia quando piove, perché non ha altro posto in cui andare. Ma magari un’altra volta sarà il turno dell’anziana donna in cerca di un po’ di tè e di tanta compagnia. O i novizi in visita fraterna: «Ho spazzato casa perché c’era un “porcaio” per terra dopo la loro visita», commenta fra Francesco con la sua bella parlata toscana. La forma canonica è comunque salva.
Testimoni di una Presenza
Ma lo «stare» francescano prende corpo soprattutto nelle attività. Che prevedono momenti strutturati e continuativi: il servizio alla Caritas diocesana, il doposcuola per studenti cinesi presso una scuola statale del territorio o in convento, e, soprattutto, le esperienze di evangelizzazione di strada: frati e tanti volontari, suore e laici che, insieme, accostano i passanti per un dialogo o anche solo per distribuire volantini in lingua cinese, che gli stessi cinesi con cortesia e curiosità accettano (a differenza di molti italiani che li rifiutano in modo brusco).
Ma al di là di tutto questo, lo stile francescano si concretizza in moltissime attività informali, quotidiane, occasionali. Sono incontri all’ospedale, dove i frati vanno a trovare quei cinesi ricoverati che, non potendo lavorare, sono abbandonati a se stessi. Come Yang Ming: ha ricevuto il battesimo da poco tempo, ma al mattino, prima di un’operazione molto delicata, si prepara alla sala operatoria pregando davanti a un crocifisso appoggiato sulla sedia.
Sono anche incontri in carcere, dove fra Francesco sta accompagnando il cammino di conversione di un capomafia cinese. O all’interno dei «buchi» dove molti cinesi abitano. Come quella volta che è capitato di recitare il rosario in un box in cartongesso, di 2 metri per 2, con lo spazio recuperato ammucchiando i materassi. O nella stessa cappellina del convento, dove la preghiera quotidiana, e soprattutto l’adorazione eucaristica serale, si anima di presenze che vanno e vengono, si accostano, guardano, sussurrano preghiere che solo Dio è in grado di comprendere.
Dove finalmente il tuo semplice «essere lì» comincia a interrogare gli altri. Che qualche volta, pur nella loro ignoranza, c’azzeccano come nessun teologo sarebbe capace di fare: «Ma chi sono?». «Non lo vedi? Sono Gesù».
Info
Piccola Fraternità S. Maria dell’Incontro, Via Donizetti, 17, 59100 Prato
e-mail francescobrasa@gmail.com
Se ti stai domandando che cosa il Signore desidera per te, o se ti incuriosisce la vita francescana, visita: www.vocazionefrancescana.org
Vi troverai un frate pronto ad ascoltarti e a consigliarti!