L'antropologia di comunione
In un mondo così litigioso qual è il nostro, c’è una grande lezione che viene dall’Africa: la Truth and Reconciliation Commission, ovvero la Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica, ancora oggi un modello di riferimento per quei Paesi che non intendono prescindere dall’esigenza etica e politica di fare i conti con il passato. Stiamo parlando di un tribunale morale che ebbe il doloroso compito, nel corso degli anni Novanta, di indagare sulle violazioni dei diritti umani provocati dal regime autoritario e segregazionista di Pretoria.
Il merito del successo di questa iniziativa ricade principalmente sull’indimenticabile presidente Nelson Mandela. Mentre va affidato alla storia il giudizio sugli esiti della Commissione, nella consapevolezza che i cinque volumi di rapporto, costati due anni e mezzo d’indagini, oltre a ventimila testimonianze e centinaia e centinaia di audizioni, siano serviti quantomeno, sul piano umano, a innescare una sorta di ecologia della memoria.
Eh sì, perché Mandela aveva chiaro in mente che la vera pace non è possibile senza purificazione del proprio passato. Ecco che allora l’esigenza di trascinare un’intera nazione nella più grande, importante e inedita operazione di catarsi collettiva, si rivelò alla prova dei fatti come una brillante soluzione giuridica e politica che assicurò una transizione pacifica dall’apartheid alla democrazia.
I risultati della commissione vennero pubblicati il 28 ottobre 1998, rivelando che le indagini avevano portato alla luce i crimini commessi dal regime razzista, dalla polizia e dall’esercito, ma anche dall’African National Congress e da altre organizzazioni paramilitari che si opposero all’apartheid. Non si trattò dunque di un colpo di spugna, quanto dell’esigenza di innescare un processo di cambiamento nonviolento che potesse scongiurare la deriva del giustizialismo.
Presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, con un budget di circa 9 milioni di dollari all’anno, la commissione esercitò la propria azione attraverso tre comitati: quello sulle violazioni dei diritti umani, che registrò e verificò gli abusi perpetrati contro i diritti umani tra il 1960 e il 1994; il Comitato per la riabilitazione e riparazione, che si occupò delle pratiche di risarcimento economico, fornendo un sostegno psicologico sia alle vittime e ai loro familiari (perché riacquistassero la fiducia e la dignità perdute) che ai responsabili degli abusi (affinché continuassero a testimoniare davanti alle autorità preposte); e il Comitato per l’amnistia, che ebbe il compito di concedere l’eventuale amnistia ai colpevoli, secondo quanto previsto dal Promotion of National Unity and Reconciliation Act.
Ma quale fu la filosofia di fondo che ispirò lo spirito e la forma dei lavori della Commissione? Chi scrive ebbe modo di chiederlo allo stesso Mandela, il quale rispose: il pensiero Ubuntu. Si tratta di un concetto filosofico della tradizione bantu, dalla forte valenza sociale, presente nelle lingue dei popoli Zulu e Xhosa. Se provassimo a tradurlo in italiano, potremmo dire: «Io sono perché tu sei» o «Una persona diventa umana attraverso altre persone».
Ecco perché da quelle parti si dice: Umuntu, nigumuntu, nagamuntu, che, nella lingua zulu, significa: «Una persona è una persona a causa di altri», affermando così la centralità della relazione umana dal punto di vista della circolarità relazionale e dell’interdipendenza che fondano la comunità.
Come ebbe a dire Mandela, «Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?». Un’antropologia di comunione, dunque, intesa anche come memoria vigile del passato, che ha permesso alla Commissione d’interpretare la propria funzione per il bene di un intero Paese.