Lavoro, casa della speranza

Come educare alla speranza in tempi di precarietà lavorativa e spesso anche affettiva? Domenico Sigalini, Luigino Bruni e Francesco Occhetta ci offrono il loro contributo, a margine del convegno Cei «Nella precarietà, la speranza».
29 Ottobre 2014 | di

Tempi duri per chi cerca lavoro nel nostro Pae­se, inutile nasconderlo. I dati sulla disoccupazione si rincorrono al rialzo: per  l’Istat i disoccupati sono oltre 3 milioni, per il Cnel addirittura 7, includendo chi, suo malgrado, ha un contratto part time. Colpiti dalla stagnazione sono soprattutto i giovani, divisi tra scarse opportunità, precariato e provvisorietà subita. Vivono la fase dell’esuberanza e della progettualità, ma quanti ostacoli trovano nell’uscire dal guscio!

La situazione interroga tutti, compresa la Chiesa. «Non lasciamoci rubare la speranza!» così incoraggia i giovani papa Francesco, che ha molto a cuore il tema della speranza, come mostrano anche diverse omelie pronunciate a Santa Marta: «La speranza mai delude, perché? Perché è un dono che ci ha dato lo Spirito Santo. Ma Paolo ci dice che la speranza ha un nome. La speranza è Gesù». E ancora: la speranza «non è quella capacità di guardare le cose con buon animo e andare avanti. No, quello è ottimismo, non è speranza. Né la speranza è un atteggiamento positivo davanti alle cose. Quelle persone luminose, positive... Ma questo è buono, eh! Ma non è la speranza».

Per guardare in faccia la realtà senza «farsi rubare» la speranza, tre commissioni Cei (per il laicato, per la famiglia e la vita, per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace) hanno organizzato a Salerno, dal 24 al 26 ottobre, il convegno nazionale Nella precarietà, la speranza. Ancor più eloquente il sottotitolo: Educare alla speranza in un tempo di precarietà, le giovani generazioni nella ricerca del lavoro e nel progettare la loro famiglia.
 
Preti e laici, serve più coraggio
Ad aiutarci a entrare nel tema ci pensa monsignor Domenico Sigalini, vescovo e presidente della commissione episcopale per il laicato: «La prima coscienza da far crescere è quella sul senso del lavoro. Quando manca lo stipendio siamo interpellati, certo, ma il lavoro è molto altro: è creatività umana, è avere un orario, è soddisfazione di aver ottenuto un risultato che mi fa autore di qualcosa di bello e di utile, è collaborazione con altri, relazione con le cose, le persone, le idee, le istituzioni, è misurarsi con la fatica, l’attesa, lo sforzo, con se stessi e con la natura, è collaborazione con Dio nel rispetto del creato, nel suo controllo e impiego a servizio dell’umanità, è spazio di amicizia e solidarietà… Entro questo campo di significati si radica la speranza di una vita bella, utile, generosa, solidale, di amicizia e di amore, una vita di relazioni, di stima per la nostra umanità. Il lavoro così inteso è la casa della speranza, perché ci colloca in una storia di dolore, ma anche di conquiste, di bellezza e nel cammino di un popolo».

In questa sfida, i cristiani sono chiamati a camminare a fianco di chi subisce la precarietà (lavorativa, ma spesso anche affettiva), con inventiva e investendo di proprio, senza appiattirsi troppo su un presente che può togliere il respiro. Commenta Sigalini: «La Chiesa per il lavoro fa sempre scuola di significati e di prospettive alte sul campo; ha fiducia nell’umanità e sa che in essa sono seminati i numerosi doni di Dio necessari per vivere in ogni tempo. Mette in atto operazioni di solidarietà creativa (vedi il progetto Policoro), impiega capitali per sostenere il microcredito di impresa. Tiene alto il senso dell’amore, del progetto di famiglia contro tutti gli abbassamenti di livello alla convivenza di prova, alla sfiducia nella natura, all’amore concreto scritto nella sessualità di maschio e femmina; riporta la bellezza dell’amore umano alla bellezza dell’amore di Dio. Certo, potrebbe essere più coraggiosa nei suoi preti e nei suoi laici nel proporre e testimoniare questi valori che non sono confessionali, ma naturali e profondamente umani».
 
Cura e lavoro part time per tutti
Chi va annoverato tra i «coraggiosi», per la sua capacità di interpretare i segni dei tempi mostrando orizzonti di significato, è Luigino Bruni, ordinario di economia politica all’Università Lumsa e coordinatore della commissione internazionale dell’economia di comunione. La sua proposta di speranza legata al lavoro parte da una constatazione: «Viviamo un cambiamento epocale. Non siamo più capaci di generare occupazione sufficiente per tutti. A erodere i posti di lavoro sono stati la globalizzazione, con la conseguente delocalizzazione, e l’avanzare della tecnologia, con le macchine che negli ultimi vent’anni hanno scalzato gli operai. Ora, la prospettiva è che ci sia lavoro per i tre quinti della popolazione, mentre gli altri staranno a casa vivendo di sussidi di cittadinanza o simili, a livello di sussistenza». Non granché, come futuro possibile! In che modo reagire? Intanto, senza affidarsi all’azione di governo. «Non bisogna illudersi: una finanziaria o un Jobs Act non bastano! Ritroveremo il lavoro per 7 milioni di persone se sapremo inventare qualcosa di diverso. Serve un cambiamento radicale, tipo la rivoluzione industriale, a lungo termine. I governi devono fare la loro parte, ma incidono per un 10 per cento nella creazione di lavoro».

Bruni propone di intervenire, con un grande patto sociale di tutte le parti in causa, sul rapporto tra il tempo del lavoro e quello della cura. «L’idea è: “Lavoro part time per tutti, cura part time per tutti”, sulla scia delle teorie di Jennifer Nedelsky, filosofa della politica. Nessun adulto dovrebbe lavorare oltre trenta ore la settimana, perché altre dieci ore le deve dedicare alla cura di sé, della famiglia e della comunità. Al lavoro di cura non può pensarci lo Stato, che se n’è sempre occupato poco e ultimamente meno ancora, né lo può fare il mercato, con i servizi alla persona a pagamento. Altrimenti il ricco potrà permetterselo, mentre il povero sarà povero due volte, di soldi e di cura. È un tema che riguarda la donna, anche. La questione non è dare uno stipendio alle casalinghe, ma ripartire tra tutti sia il lavoro, sia i diversi aspetti della cura».
 
Con gli occhi dei profeti
Questo slancio in avanti non deve far dimenticare la speranza che già è operante nella nostra società. «Vedo molti segni di speranza – confida Bruni –, ma in luoghi dove non ce l’aspetteremmo. Perché bisogna cercare la speranza non tra i ricchi, ma tra i poveri. Sono loro ad avere fame di vita, e ad agire di conseguenza. Basta pensare al dopoguerra: la ricostruzione è avvenuta dal basso, da milioni di persone che si sono rimboccate le maniche. Vedo tutta una parte d’Italia che sta reagendo alla crisi e al pessimismo spirituale in modo stupendo e creativo».

Non a caso l’economista insiste sul senso della vista. «È perché sono convinto che siamo inondati dalla provvidenza ma, distratti, non la vediamo. Mi riferisco a una speranza feriale, gratuita, da scovare nel quotidiano, non banale, per scorgere la quale servono gli occhi dei profeti. Come quelli di Mosè, che sa riconoscere in quella “cosa fine e granulosa, minuta come è la brina” la manna, “il pane che il Signore vi ha dato in cibo”. Anche gli israeliti l’avevano vista, ma non erano andati oltre il chiedersi “Che cos’è?” (Es 16,13-15). Ecco, dovremmo riportare persone con occhi diversi dentro i luoghi del vivere. Non penso solo ai grandi mistici, ma anche a poeti, artisti, a chi possiede un carisma religioso o civile. Vorrei nelle aziende, ma anche al ministero del Lavoro, qualche uomo spirituale che liberasse il bene comune: è quello il suo posto». Eccoli allora i cristiani: persone dagli occhi diversi che, come ha indicato papa Francesco all’udienza del 15 ottobre, devono «mantenere accesa e ben visibile la lampada della speranza, perché (…) possa illuminare a tutta l’umanità il sentiero che porta all’incontro con il volto misericordioso di Dio».
 
 

P. FRANCESCO OCCHETTA
Giovani, diventate artisti della vostra vita

 
I giovani italiani, il dramma del lavoro e il progetto familiare è il tema affrontato nel corso della tre giorni di Salerno da padre Francesco Occhetta, gesuita, redattore di «La Civiltà Cattolica» e attento osservatore di questioni sociali, politiche e di diritto.

Msa. Quali sono i punti salienti della sua relazione?
Occhetta. Affronto l’argomento toccando un punto antropologico, uno spirituale e un aspetto politico. I giovani sono spesso incolpati rappresentandoli in modi artefatti, mentre essi patiscono uno sfruttamento quotidiano nei lavori sottopagati, negli affitti inaccessibili, nelle false promesse. Il cambiamento richiede che un’intera società di adulti converta la propria sterilità e diventi generativa nell’ascolto, per misurare la sincerità delle intenzioni dei giovani e aiutarli a riscattarsi e a mettersi in un cammino di ricerca insieme. Ma l’antropologia parla anche di adultescenza, un neologismo che fonde le parole «adulto» e «adolescente», usato per definire i giovani che rifiutano di diventare grandi. L’adulto non può vivere come un eterno adolescente che sperimenta ciò che non ha potuto fare da giovane. I giovani vanno aiutati a diventare adulti e ad assumersi le proprie responsabilità.

Per farlo è urgente il rilancio della vita spirituale, fondamento di ogni scelta e di ogni sogno. Come ha scritto Pierre Teilhard de Chardin, «non basta, come suggerisce il moderno edonismo, rinnovarsi in un modo qualsiasi, per essere felici. Nessun cambiamento beatifica (rende felici) a meno che non si agisca avanzando e in salita».

La testimonianza dei cattolici in politica ha la responsabilità di costruire per i giovani un futuro carico di promesse. Per questo le riforme vanno appoggiate, per dare opportunità alle nuove generazioni, puntando in particolare su quella del Terzo settore e dell’economia civile, destinata a un cambio culturale.

Cosa ne pensa del Jobs Act? Siamo all’auspicata svolta per dare ai giovani occasioni in più di inserirsi nel mondo del lavoro?
Sì. La riforma, inserita in una prospettiva europea, risponde concretamente alla domanda di occupazione giovanile. Le scelte di fondo che definiscono il Jobs Act – il salario minimo, l’assegno universale di occupazione, la riforma degli ammortizzatori sociali, la semplificazione del codice del lavoro, il rendere più conveniente per gli imprenditori le assunzioni a tempo indeterminato piuttosto che determinato – vanno approvate con urgenza. Il mercato non ha bisogno di regole in più o di nuove forme contrattuali, ma di uno statuto che includa i diritti inderogabili del lavoratore, soprattutto giovane, come la sicurezza sociale, il diritto alla pensione, le forme di conciliazione, la formazione permanente.

«Bamboccioni», ma anche «resilienti», capaci di far fronte in maniera positiva alle difficoltà: così sono stati descritti i giovani italiani. Quale aggettivo corrisponde più da vicino alla realtà?
Nessuno dei due. Navigano in Rete, vivono amori liquidi, sono intelligenti ma devono diventare «artisti della propria vita», scegliere se puntare a costruirsi come un «superuomo» che cerca la felicità nella propria autopromozione, oppure riconoscersi deboli ma responsabili, dove il grado di felicità sta nell’«essere per gli altri».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017