Le cose in cui credo

10 Gennaio 1998 | di

Mi presento, ho il dovere di farlo. Entro nelle case di persone sconosciute e non posso non bussare alla porta, annunciarmi, dire chi sono. Qualcuno, dopo l'incontro con il cardinale Martini nella basilica di San Giovanni - a proposito, che strana, nutriente emozione essergli accanto - ha scritto che la mia 'è ancora un'inquietudine più intellettuale che religiosa'. Può darsi. Semplicemente, sento di non dover rinunciare a capire quell'uomo che Cristo ha fatto indiviso e indivisibile.

Per esempio, credo che parlare dell'uomo sia parlare di Dio. E viceversa. Altrimenti, la cruciale mediazione di Cristo fra cielo e terra scompare. Credo, altresì, nella cultura del dubbio. Non il dubbio laicista, pregiudiziale, elitario: penso a quello che nutre la persona, che fa domande e chiede risposte, che ha bisogno, appunto, di capire. Sant'Agostino parla del 'credere assentendo': il pensare, cioè, viene prima del credere. Chi non ha bisogno di pensare? E chi pensa, non cerca? E chi cerca non risale da un dubbio? Altrimenti che cosa pensa, e cerca? E che cosa troverà , se troverà ? Più che scommettere su Dio, come Pascal, credo che ci si debba arrovellare, se occorre, sino alla fine. La dignità  di essere uomini sta anche nel voler riflettere sulla nostra origine. Per questo, forse, di tanto in tanto rivado all'uomo che nel Vangelo di Marco dice: 'Signore, io voglio credere, ma tu aiuta la mia incredulità '.

Così, come le mie poche forze, mi interrogo sul crescente bisogno del trascendente, che coinvolge le persone più diverse; e tento una risposta, per non consegnarmi a un fenomeno che ormai ci avvolge completamente: la progressiva perdita del senso, del significato. Questa civiltà  ci ha permesso di avere molte cose, ma ad esse non corrisponde che di rado il nostro assenso intimo. Sicché, consapevoli o no, viviamo tutti una sorta di nostalgia dei contenuti. Fateci caso: si è più appagati, ma più malinconici; riceviamo più certezze, ma siamo più insicuri; ci pare di avere il futuro in mano, e facciamo i conti col giorno per giorno.

La complessità  del nuovo, in questo prendere forma secondo un'idea inflessibile del domani, genera nelle persone, che non si sentono né partecipi né interpellate, un senso di estraneazione dalla loro stessa sorte; e non potendo prendere parte attiva al formarsi del loro destino, ne ricevono una qualche forma di frustrazione, di scontentezza, di infelicità . Di qui, il bisogno di convinzioni, di fiducia, di durata, cioè la ricerca di fondamenti.

Guardiamoci intorno: urgono bisogni non edificanti, ma reali; essi riguardano la psicologia, la sfera affettiva, i rapporti sociali, la religione, la politica. Per far posto a pragmatismi di ogni sorta, abbiamo demolito la filosofia; e per dar prova di concretezza si sono sacrificati la fantasia e i sentimenti, cioè il nostro essere non soltanto soggetti concreti, principalmente economici, ma anche, prima e più ancora, protagonisti di un controverso universo personale fatto di licenza e rigore, estraneazione e dovere, realtà  e memoria, indifferenza e giudizio, sofferenza e gioia, e via così.

Oggi si vive la realtà  con la sensazione che ogni sera essa debba finire in coriandoli, e che qualunque cosa non abbia più la natura per durare. L'informazione stessa ci induce a credere che tutto, ormai, sia provvisorio, fuggevole, ritrattabile. Nulla, degli eventi e dei giudizi su di essi, sosta dentro di noi più di qualche minuto o qualche ora. Un tempo, nelle case, si parlava della stessa cosa per settimane, per mesi; adesso tutto sembra nascere per dover subito sparire. E se non ne afferri il senso non fa niente, perché verrà  disperso da quanto già  sopravviene con il suo significato diverso.

Questa perdita del contenuto e della sua continuità , questo non sapersi più né qui né altrove - tanto si è indebolito il nesso tra il prima e il dopo, tra la causa e l'effetto - , questo continuo essere privati del nostro parere, e quindi della nostra capacità  di scegliere e di rifiutare, ripropone l'antico bisogno di un benessere interno che ci riconcili con noi e con il mondo. Mentre assistiamo a un crescente scombuglio del reale, stento a credere che l'uomo di oggi, nella mente e nell'anima del quale sono conficcate le immagini di questo secolo della contraddizione - la penicillina e Hiroshima, il paesaggio lunare e la guerra etnica, il tempo libero e la tortura - abbia voglia solo di dimenticare; quasi che, temendo la propria memoria, scegliesse una sorta di erratica, effimera, indolore 'neorealtà ', cioè una sorta di lager tutto nuovo, indifferente, neutrale, appagante.

Andrebbe detto, invece, che la memoria è sì, spesso, la nostra afflizione, ma ha anche un potere di emendamento, ed è quindi una notevole risorsa morale. Nella società  del consumismo inteso come ricchezza, del nuovo come modernità , del benessere come sviluppo, e poi dell'edonismo che passa per emancipazione o della facilità  gabellata per conquista, i valori ereditati in forza della loro perdurante attualità  devono nutrire il quotidiano, superando le barriere del disincanto e della rassegnazione. Del resto, la vita riceve solo dalla vita. E si alimenta solo di essa. Perciò sta sempre dietro e davanti.

Eppure, lo confesso, comincio a temere, come si avverte l'arrivo di una malattia, che presto la storia non potrà  chiarirmi più nulla sulla qualità  della natura umana, quella che salva di continuo così il bene come il male, se al suo vigore oggettivo, concreto, non accompagneremo le ragioni profonde dell'animo. Non posso infatti tacermi che alle conquiste che la storia lasciata a sé, senz'anima, continua a generare, non a caso si succedono puntualmente le infamie di cui è stata e resta capace. E ciò, in un tempo che vede tutto velocizzarsi e inglobarsi, rischia di produrre una realtà  non più governabile dalle scelte etiche.

Ho indagato qua e là , in Tv e con i libri, i motivi per credere in ciò che qui dico sommariamente; indugiando sull'idea che le ragioni di Dio non possono restare ai margini della grande avventura antropologica dell'uomo, ma anzi avere un ruolo dirimente, come mai era accaduto prima. In questa concitata, travolgente modernità , con quello che abbiamo messo in moto, con l'uomo che vuole rifare l'uomo per non dovere più nulla al suo creatore, tutto può avere un esito incerto e pericoloso; e dunque ogni scelta dovrà  fondarsi su una premessa anche, se non fondamentalmente, morale. Il dilemma che questa modernità  ci pone sta nel dover scegliere se accettarci, o no, nel nostro modo di pensare, di volere, in definitiva di vivere. 'Essere per la vita' non è un'impresa da poco. E men che meno dover decidere se disperare o sperare. Lo studio, per dir così, della qualità  interiore dei nostri atti dovrà  costituire una sorta di 'disciplina dello spirito' con cui affrontare, sotto questi aspetti, il domani. Scienza e profezia, per paradosso, potrebbero rivelarsi la grande storia del mondo di domani.

Ma quale sarà  il nostro destino?, ci domandiamo. Il quesito non mi pare ragionevole perché l'uomo stesso è il destino. Come fare, allora, perché l'uomo non diventi meno di un uomo? Questo, sì, mi sembra giusto chiedersi. Perché se è vero che tutto è partecipe della storia, non possiamo sottrarle proprio la dimensione interiore, cioè il sigillo dello spirito sul nostro essere di materia. Ogni cosa, a veder bene, prende il volto delle nostre azioni, ed esse sono segnate insieme dalla ragione e dall animo; carne e spirito, speranza e progetto diventano così la profezia dell'ineffabile e del concreto, del destino e dell'inseparabile.

Nel nostro primo incontro su queste pagine aperte e accoglienti sentivo di dover dire qualcosa che potesse riguardare, così spero, il lettore, la rivista e me. L'ho fatto, credo, con semplicità , e sicuramente con franchezza.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017