Le estati della mia infanzia

Una volta si viveva ai ritmi del giorno e della notte, le fasi della luna, il ciclo del sole e quello apparente delle stelle. Era segno della felice naturalità del vivere, oggi perduta. Il falciatore. La mietitura e la trebbiatura.
02 Luglio 2001 | di

Oggi l`€™estate è soprattutto la stagione delle vacanze. Le fabbriche chiudono per un mese, o almeno tre settimane, le scuole e gli uffici lo stesso, e così molti, se sono in grado di permetterselo, si recano al mare, in montagna, nelle città  d`€™arte o in luoghi esotici che godono di una fama di natura snobista e spesso usurpata.

Un tempo l`€™estate era molto diversa. Lo era persino dal punto di vista meteorologico perché, per effetto della civiltà  industriale, o per rapidi mutamenti terrestri, o per ambedue le cause, le stagioni stanno malamente rimescolandosi tra loro, e vanno perdendo le loro caratteristiche salienti `€“ per l`€™uomo così importanti `€“ che sembrano impastate con la nostra stessa esistenza. Così era almeno ai tempi della civiltà  contadina, quando il nostro inconscio era grandemente più legato di oggi alla natura, alla vita, alla terra, anzi ai ritmi cosmici, che ci fornivano il sentimento del tempo e delle sue misure.

Allora si viveva in rapporto ai ritmi del giorno e della notte, alle fasi della luna, al ciclo del sole e a quello apparente delle stelle. Era una segno della felice naturalità  del vivere, oggi perduta.

Quand`€™ero bambino, trascorsi molti anni in campagna, dai miei nonni, e le estati di un tempo sono senza dubbio entrate a far parte del patrimonio stabile della mia memoria. Nei mesi estivi i contadini avevano un gran lavoro, maggiore di quello di ogni altra stagione. Uno di quelli che mi impressionavano di più era lo sfalcio dell`€™erba, che poi il sole e il tempo mutavano in fieno. Esso serviva in ogni casolare perché non v`€™era famiglia che non possedesse almeno un paio di mucche che servivano per il latte, ma anche per trascinare l`€™aratro. I trattori, piccoli e grandi, con cui oggi si divertono anche coloro che contadini lo sono poco o nulla, erano estremamente rari. Tutti i lavori agricoli venivano fatti con la forza degli animali e degli uomini. Così, per alimentare le bestie nella stalla, bisognava avere una gran riserva di fieno.

Il falciatore era una figura archetipa del mondo contadino, specialmente d`€™estate. Si recava nei suoi prati prestissimo, alle quattro del mattino, poco prima che l`€™alba incrinasse il buio dell`€™orizzonte, portando con sé un gran recipiente di creta, il butà¢z, pieno d`€™acqua o di vino. In tal modo, aveva davanti a sé molte ore per lavorare prima che il sole gremisse l`€™aria di temperature infuocate. Era, il suo, un lavoro molto faticoso. Il falciatore, descrivendo con le braccia un arco sempre uguale, versava rivoli di sudore dalla testa ai piedi. Spesso lavorava a torso nudo, la testa riparata da un gran cappello di paglia munito di una tesa di ampiezza quasi messicana. Ogni dieci minuti si fermava per ridare il filo alla falce, con la cote che teneva alla cintura, dentro un corno di bue tagliato a metà . Era anche un modo per riposarsi e riprendere fiato. Alle dieci del mattino doveva sospendere il lavoro, per la stanchezza e l`€™eccesso di calura. Nel pomeriggio sarebbero passate le rastrellatrici, che ammucchiavano il fieno in alti covoni, per ridurre i danni della pioggia eventuale, e il giorno dopo di nuovo li spargevano, per completare l`€™essiccamento.

La mietitura. I contadini avevano ragione di temere la pioggia. Infatti, l`€™inizio dell`€™estate era sempre epoca di grandi temporali. I temporali del solstizio, che i contadini chiamavano in Friuli, il burlà¢z di san Pieri. E san Paolo, festeggiato il medesimo giorno? Niente. San Paolo non viene mai neppure nominato dai contadini. È uno degli artefici del trionfo del cristianesimo, ma nelle campagne era poco noto, essendo un intellettuale e un mistico. San Pietro, invece, era popolarissimo e alimentava un ventaglio molto vasto di leggende.

Erano i giorni della raccolta del grano, che veniva eseguita a mano con la falce messoria. Finito il lavoro, prima che il campo venisse arato per accogliere nuove seminagioni, le donne e i ragazzi delle famiglie povere raccoglievano le spighe che i mietitori avevano trascurato. Per molti si tratterà , forse, di un aspetto triste della miseria della civiltà  contadina, e non si può dar loro torto. Ma nel costume della spigolatura è da vedere un altro lato. Spesso le spigolatrici facevano quel lavoro non soltanto per miseria ma anche perché niente, neppure poche spighe di grano, andassero perdute.

Anch`€™io ho fatto, talvolta, lo spigolatore. V`€™è un punto del Vangelo in cui Cristo fa la stessa cosa per nutrirsi, e viene rimproverato perché ciò avviene nel giorno di sabato. La spigolatura per noi cristiani ha dunque un grande valore simbolico ed etico, perché in quell`€™occasione apprendemmo dal Rabbi di Nazareth che l`€™uomo è più importante del sabato. Gli spigolatori agivano in nome di un grande principio e un grande sentimento: la "parsimonia". È uno dei lati fondamentali della civiltà  contadina, che anche la nostra, industriale e tecnologica, dovrebbe accogliere e assimilare. La cultura dei consumi è falsa e deforme, perché contronatura, e destinata a non durare, dato che le risorse della terra sono limitate, e continuamente crescono la popolazione umana e le sue esigenze. Non passerà  molto tempo che l`€™attuale sciupio di risorse sarà  un ricordo, i pozzi di petrolio saranno inariditi, e gli uomini dovranno tornare a una ferrea parsimonia, che richiamerà  da vicino quella della civiltà  contadina. Per fortuna, la scienza e la tecnologia ci aiuteranno.

La trebbiatura. Quand`€™ero bambino, già  v`€™erano le trebbie meccaniche e, quindi, nelle aie contadine non aveva più luogo il rito della battitura del grano. Per coloro che stavano nelle vicinanze della trebbia, che era anche, per solito, il luogo del mulino, v`€™era sempre, all`€™inizio dell`€™estate, una gran fila di carradori e carri carichi di grano, in attesa d`€™essere liberato dalla paglia e dalle reste. Era un`€™attesa paziente e allegra, carica di compenso. Allora la gente non era percorsa dalle impazienze nevrotiche di oggi, dove l`€™attesa di due minuti davanti al semaforo pare già  una sventura.

Altri lavori importanti dell`€™estate erano quelli dell`€™orto. Ogni contadino produceva le verdure da sé, e anche la frutta. Ma soprattutto era importante la prima, perché la frutta, nel concetto della gente di campagna, almeno un tempo, interessava soprattutto i ragazzi e i bambini, che non sdegnavano neppure di rubarla. Anzi dalle mie parti il furto di frutta veniva assolto bonariamente o, addirittura, sacralizzato. Infatti la frutta, che maturava quasi tutta d`€™estate, veniva rubata ta chel dal Signor ossia nel territorio del Signore, nel demanio di tutti. L`€™astuto contadino a volte, a fini giustificativi dei suoi comportamenti, diventava un po`€™ anche un "comunista di Dio". Un po`€™ come i frati, che hanno fatto voto di povertà  e di non possedere nulla. Il principio valeva soprattutto per la frutta degli altri!

La siccità . Spesso l`€™estate era ferita dall`€™undicesima piaga d`€™Egitto: la siccità . Il sec. Negli orti si poteva rimediare attingendo acqua dai pozzi e riempiendo gli annaffiatoi di zinco. Era una cosa alla portata di tutti. Ma la siccità  dei campi non era rimediabile. Andava accettata con santa rassegnazione. Il granoturco languiva e le sue foglie cominciavano a ingiallire dal basso. Le foglie di ogni coltivazione inaridivano, a volte persino quelle degli alberi, e la campagna forniva spettacoli da stringere il cuore. Non v`€™era, o quasi, l`€™irrigazione frutto dell`€™odierna tecnologia. Per avere la pioggia si facevano le rogazioni, le processioni per la campagna con il sacerdote vestito con la stola e il piviale, il sagrestano col secchiello dell`€™acqua benedetta, e dietro la canea dei chierichetti. Ancor più dietro, i contadini borbottavano avemarie, paternostri e litanie in latino, pronunziando simpatici e proverbiali svarioni. Era uno spettacolo inconsueto vedere le solenni cerimonie delle chiese eseguite per i viottoli di campagna.

In quell`€™occasione, il cristianesimo pareva diventare una delle antiche religioni agrarie. E, a guardar bene, una vena di panteismo agreste era visibile nella religione dei contadini nella quale i santi, Madonna e Cristo stesso (il Padreterno veniva lasciato da parte, era troppo grande e lontano) diventavano altrettanti protettori dei campi e delle fatiche di quelli che li lavoravano, che potevano vedere tanto lavoro vanificato da una paurosa grandinata.

Solo alla fine della civiltà  contadina si cominciò a difendersi dalle grandinate con razzi che disperdevano le nuvole, quando ancora nessuno pensava minimamente all`€™astronautica. La grandinata era temuta come il colera. A fulgure et tempestate libera nos Domine. La tempesta non è propriamente la grandine, ma si sa che il popolo traduce a modo suo; e tampièste, in friulano, come in molti dialetti, vuol dire, appunto, grandine. Anche l`€™effetto delle grandinate metteva addosso una gran malinconia. Del resto, succede anche oggi, benché possediamo difese tecnologiche e ammortizzazioni assicurative. Un tempo la grandine era veramente come la peste manzoniana: a chi toccava toccava. Qui tutto era distrutto, e cinque passi più in là  non v`€™era neppure traccia della grandinata. Chi ne era stato colpito portava in giro la faccia di uno che abbia un funerale in casa. I miei nonni non avevano terre al sole, erano maestri, ma il mio cordoglio, tuttavia, era grande per le grandinate. La sofferenza della terra e dei contadini era la mia stessa sofferenza. Da decenni ho inventato per me un aggettivo che non esisteva: "geopatico". Sto male quando la terra soffre. Non per nulla sono considerato lo "scrittore della terrestrità ", ossia di quel sentimento, in gran parte dissolto negli uomini d`€™oggi, che lega il nostro inconscio alla terra, e ci fa sentire una piccola parte della vita, della natura e del cosmo.

Le sagre. L`€™estate contadina era anche l`€™estate delle sagre, cui mio nonno, Pietro Mattioni, dedicò un libro di sapide descrizioni. In Friuli l`€™estate cominciava con la sagra di san Pietro e si concludeva con la Madonna delle pianelle, l`€™otto settembre. V`€™era tutta una serie di festività  tipicamente contadine che rivelavano la loro sacralità  con lo stesso nome che serviva a definirle. Era il modo dei contadini di introdurre l`€™elemento della festa nella loro vita povera e laboriosa. La "sagra" era un divertimento molto modesto. Comportava una spesa minima, il costo di qualche bicchiere di buon vino, e certo più apprezzato del fragolino prodotto dalle viti della pergola di casa, il costo di un paio di frittelle o di pandolce per i bambini, e questo era tutto.

Ma v`€™era il piacere di stare insieme. Gli uomini parlavano di cacce e di cani, le donne di bambini e faccende di casa.

Chi veniva da lontano, in bicicletta, con il fazzoletto immacolato, annodato sopra la sella per non macchiare i calzoni della festa, consumava le provviste portate da casa. Era il classico picnic che un tempo non era sdegnato nemmeno dai borghesi e dai nobili. Ma nelle sagre il festeggiato era sempre un santo o la Madonna, sentiti come creature terrestri, che avevano avuto un destino religioso eccezionale, ed erano diventati protettori degli uomini. In tal modo, la festa, oggi per lo più laicissima, celebrata con musiche assordanti, sesso e droga, conservava un sapore religioso e si fondeva perfettamente con la quotidianità  della vita. Era un modo di vivere eticamente molto superiore al nostro. Anzi io ritengo che almeno tre aspetti della civiltà  contadina, la parsimonia, la capacità  di convivere con la natura senza guastarla, e il sentimento della sacralità  siano elementi che la società  industriale o tecnologica dovrebbe riscoprire, per poter riacquistare qualche speranza in un futuro, che ci appare sempre più minaccioso.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017