Le fondamenta della casa comune
Il Vangelo è per definizione la «buona notizia» da far giungere all’orecchio di tutti gli uomini, di ogni età, tempo e latitudine. Fin dagli albori del cristianesimo sul tappeto c’è quindi una questione di comunicazione, che sempre interpella chi è già stato toccato dalla grazia del lieto annuncio: come farò a essere «contagioso», a trasmettere la bellezza della fede e dei suoi contenuti? Nell’ambito della bioetica, poi, la questione si fa ancora più delicata. Il nocciolo fondamentale è quello dei «valori non negoziabili». Vale a dire di come rendere evidente la ragionevolezza delle posizioni dei credenti.
Attorno a questo tema abbiamo dialogato con don Giovanni Del Missier, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica del Triveneto e di Bioetica all’Accademia Alfonsiana di Roma.
Msa. Quali sono i «principi non negoziabili» per un cristiano?
Del Missier. Il primo in assoluto è l’essere umano, con la sua incomparabile dignità, per amore del quale Dio ha offerto suo Figlio. Poi è chiaro che questa affermazione centrale suppone il riconoscimento di alcuni beni indispensabili perché una persona possa far fiorire la sua identità. Sono, in sintesi, il valore della vita, dal concepimento alla morte; la libertà nelle sue molteplici espressioni, e in particolar modo la libertà religiosa; l’uguaglianza; le forme della relazionalità, prima tra tutte la famiglia. Il testo fondamentale da rileggere in proposito è la Pacem in terris, ma anche i tanti documenti del Magistero sui diritti umani e i corrispettivi doveri, che ci danno conto dei valori cruciali per il bene della persona.
La negazione contenuta nella definizione di «non negoziabile», però, è un brutto biglietto da visita.
Sì, quella dicitura è problematica perché suona negativa. Ma c’è anche un altro motivo, più profondo. Dire «non negoziabile» oscura la faticosa ricerca delle condizioni e delle modalità per realizzare valori che in astratto – in forma assoluta e trascendentale – non esistono. Acquistano tutto il loro peso e significato solo nella concretezza delle situazioni, incarnati nella storia.
Per esempio?
Penso al bene della vita, e quindi della salute. In generale siamo tutti d’accordo su questo principio, ma poi come decidiamo di gestire il sistema sanitario? Guardando anche solo alle società avanzate e democratiche occidentali, vediamo che esistono risposte molto variegate a questa domanda. Per esempio: in Italia e in alcuni altri Paesi europei abbiamo fatto scelte di copertura sanitaria per tutti, che gli Stati Uniti non condividono.
Come si potrebbero definire i valori «non negoziabili» in maniera positiva?
Propongo «principi fondamentali». Questo binomio dà anche l’idea di come, se tali principi vengono a mancare nella loro sostanza, la società non si regge, perché non c’è il basamento sul quale costruire le strutture sociali. Allora è importante che questi valori siano consolidati, motivati, che tutti possano riconoscerli. Vedrei nella Costituzione quella convergenza di base senza la quale non si può costruire una società armonica veramente rispettosa di tutti.
Del resto, sono «principi» perché stanno all’inizio.
Ma non basta porli: prima ancora, bisogna dare alle parole un significato riconoscibile. Cosa intendono le persone per «vita», «famiglia», «libertà»? Una volta chiariti i concetti, vanno cercate le modalità per realizzare i contenuti individuati insieme. Questa è l’arte della politica, della negoziazione in senso alto. Il suo compito, faticoso ma nobile, è quello di trovare il «come» concretizzare quel valore nel miglior grado possibile, nelle specifiche situazioni reali di una società pluralista. È la ricerca di un bene comune in cui tutti possano tendenzialmente riconoscersi: bisogna individuare una convergenza al più alto livello possibile, un massimo comune denominatore.
Tuttavia, denunciava il cardinale Angelo Bagnasco a Todi il 17 settembre scorso, «si sente affermare che di questi valori non bisognerebbe parlare perché “divisivi” e quindi inopportuni e scorretti (…). L’invito, non di rado esplicito, sarebbe quello di avvolgerli in un cono d’ombra e di silenzio, relegarli sempre più sullo sfondo privato di ciascuno, come se fossero un argomento scomodo, quindi socialmente e politicamente inopportuno».
È un’affermazione interessante: fotografa l’illusione, di tipo liberalista spinto, che in una società pluralista la democrazia possa essere solo procedurale. L’idea è: si dettano le regole per non pestarsi i piedi, ma poi ognuno fa quello che vuole, inutile perseguire obiettivi di sostanza. Certo è un’ipotesi, ma sul piano pratico è più efficiente convergere sui contenuti del convivere, come avviene nelle Costituzioni delle democrazie occidentali. La democrazia non si regge sul vuoto. Lo Stato deve proporre un modello di convivenza sociale, non ha alternative.
Come si approcciano i cristiani a questi temi?
I cristiani li riconoscono e li hanno molto a cuore, anche perché c’è una sintonia profonda con il Vangelo. Li pongono, ma fanno più difficoltà ad argomentarli, a mostrare la loro plausibilità e ragionevolezza che può prescindere anche dall’assenso di fede. Parliamo infatti di beni che sono convenienti all’essere umano in quanto tale, che quindi possono essere promossi in un’alleanza molto ampia. Andrebbero dimostrati in termini non dogmatico-catechistici.
I credenti testimoniano i principi che professano?
I cristiani sono più abituati a testimoniare che a comunicare. Affermano i valori fondamentali con il loro comportamento di tutti i giorni. Penso a tutte le scelte per la vita, il cui valore è sottolineato non a parole, ma nella concretezza dell’accoglienza dei piccoli, nel prendersi cura degli anziani, e in tutti i molteplici impegni di carità che connotano la comunità cristiana e i singoli fedeli. Per non dire della libertà: la presenza della Chiesa in ambienti anche ostili alla fede, come può essere il Medio Oriente o la Cina, rende chiaro l’impegno cristiano per la libertà di espressione, di aggregazione, di religione, denunciando gli abusi e promuovendo strutture più giuste. Questa è testimonianza.
Lei afferma, come dato di fatto, che il cristiano è «più testimonianza e meno comunicazione». È un bene o un male?
Intanto non disgiungerei i due aspetti. Una comunicazione senza testimonianza è inefficace, come già diceva Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché essi sono dei testimoni». Per quanto riguarda la comunicazione, poi, non dobbiamo pensarla solo rivolta verso gli altri. Bisogna prima imparare a comunicare a noi stessi, ovvero trovare motivazioni, plausibilità, rileggere la propria esperienza in termini evangelici. Già san Pietro introduce questa dinamica, quando ci invita a essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). La speranza prima va vissuta, altrimenti non ha senso, ma poi bisogna anche comunicarne le motivazioni, specie quando si entra in un contesto sociale pluralista quale il nostro.
In quali settori si sente maggiormente il bisogno della voce cristiana?
In quelli nei quali siamo meno efficaci, nei quali abbiamo disimparato a essere presenti. Penso al sociale, alla politica e all’economia. In questi mondi che sembrano andare per conto proprio c’è l’esigenza di persone ben preparate, capaci di testimoniare il loro essere cristiane.
C’è chi considera che «non negoziabile» significhi automaticamente «indiscutibile», quasi una forma di autoassoluzione dalla ricerca di argomentazioni valide.
Infatti. Per questo dico che facciamo più fatica a comunicare. Alle volte noi, affermando valori buonissimi, rischiamo di brandirli come una clava, con esiti controproducenti, invece di cercare di rendere coinvolgenti e persuasivi quei principi che noi affermiamo essere centrali. Va fatto un lavoro più costruttivo e propositivo. È la grande lezione del Concilio Vaticano II: guardare con simpatia al mondo, e coglierne prima di tutto le risorse, senza per questo tacere i crimini e le minacce.
Il web e i social network possono essere d’aiuto nel presentare i principi fondamentali?
Senz’altro, ma ad alcune condizioni. Come diceva l’allora cardinal Ratzinger nel 2002, evangelizzare in internet «esige pazienza, approfondimento e sensibilità, quindi approccio alla cultura dal suo interno, percezione delle sue minacce, come pure delle sue possibilità palesi o nascoste». La metafora usata era quella degli «incisori di sicomori»: il frutto va tagliato al momento giusto perché diventi gradevole al gusto. Servono quindi interventi mirati ed efficaci, anche profetici, ma da ponderare con prudenza, evitando l’effetto boomerang. Il web e i social network non sono «strumenti» per veicolare un messaggio. Sono invece ambienti, continenti da evangelizzare. Entrare in un mondo significa imparare a conoscerne il linguaggio, le strategie comunicative, fare un’opera di traduzione, una vera nuova inculturazione del messaggio cristiano.
Se fosse un allenatore, schiererebbe i suoi atleti in difesa di questi principi (facendo scudo rispetto agli attacchi che subiscono) o all’attacco (sviluppando ragioni che ne dimostrino l’autenticità)?
Non ritengo il paragone adeguato perché, in caso di sconfitta, a perdere non sarebbe una squadra, ma l’essere umano. In ogni caso, un bravo allenatore sa impostare sia la fase d’attacco che quella di difesa, a seconda delle situazioni, ma la partita di una buona squadra alla fine si decide a centrocampo, nel fraseggio e nella visione di gioco.
Cambiamo metafora passando alla musica: per comunicare i valori fondamentali sceglierebbe un tempo Adagio o un Allegro con brio?
«La verità è sinfonica» diceva il teologo von Balthasar. Si tratta di alternare tempi e movimenti, come accade in ogni sinfonia. C’è bisogno dell’Adagio per la riflessione profonda: nella nostra società non sempre riusciamo a farlo. Poi serve l’Allegro, che rappresenta la dimensione di speranza, di positività. L’importante è saper scegliere il tempo giusto al momento giusto, senza fare troppo i pensosi quando serve slancio, e viceversa. Dovremmo esercitarci a presentare al meglio i valori che abbiamo: sono belli, affascinanti, buoni, attirano. A volte siamo noi che non siamo in grado di mostrarli per quello che sono.
Lo ha ribadito anche Benedetto XVI quando – nel messaggio per la prossima Gmg di Rio de Janeiro 2013 – invita a essere «missionari della gioia».
D’altra parte secondo l’evangelista Giovanni è il motivo della predicazione di Gesù: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La pienezza della gioia è frutto dell’evangelizzazione.
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