Le lingue del Santo

Sant’Antonio amato e venerato in tutto il mondo: nella vecchia Europa, nel cattolicissimo Sud America ma anche tra gli indù in India e tra i musulmani in Turchia e in Libano. Viaggio sulle tracce di Antonio.
26 Gennaio 2010 | di


«Dove è passato l’uomo, lì un’immagine di sant’Antonio di Padova lo docu­menta».

La notizia, secondo quanto mi hanno riferito alcuni amici anglosassoni, è uscita sul «New York Times» qualche anno fa. A me sembra un po’ enfatica, ma verosimile. A otto secoli dalla morte (1231), sant’Antonio è diventato un fenomeno religioso mondiale. Inutile pretendere di spiegarlo accampando ipotesi di contagio emotivo, di superstizione raffinata o ignoranza da debellare con il catechismo della scienza.

Varghese Puthussery, frate francescano indiano, ci racconta che nel suo grande Pae­se sant’Antonio gode di una profonda devozione: cristiani e indù partecipano assiduamente alle pratiche di devozione del martedì antoniano, alle novene in preparazione della sua festa, specialmente nel Kerala. Gli indù più acculturati lo considerano un personaggio occidentale capace di grande amore verso gli ultimi, di stretta autodisciplina (digiuno), pratica che gli ha permesso di dominare i propri sensi (vittoria sull’egoismo) e di predicare il bene fino all’esaurimento delle proprie energie (atto di amore gratuito verso gli indifesi e i poveri). Gandhi riteneva che un uomo con tali doti meritasse di primeggiare nella società.

A Padova, il primo maggio di ogni anno, gli immigrati cristiani dello Sri Lanka in Italia si riuniscono a migliaia presso la Basilica del Santo. Sono accompagnati dai loro sacerdoti e vescovi. Sostano tutto il giorno nei chiostri dopo aver partecipato alla messa e pregato presso la tomba del Santo.

Dalla Costa d’Oro (oggi Ghana), in Africa, padre Giorgio Abram, da oltre trent’anni missionario nel Paese, ha raccolto testimonianze che raccontano di come una statua di sant’Antonio «sopravvisse» per secoli, in maniera prodigiosa, alle alterne e spesso tragiche vicende delle varie missioni cattoliche della zona. I cappuccini, sostenuti dai portoghesi, furono costretti a lasciare il Paese con l’arrivo degli olandesi, di religione calvinista. Fallì anche una missione domenicana. L’unico che resistette al mutare degli eventi e dei conquistadores fu proprio sant’Antonio, grazie alle sue profonde radici nel territorio. Non solo resisteva, ma compiva persino miracoli come quella volta in cui – si narra – liberò dalla pazzia un uomo. Quando gli inglesi prevalsero sugli olandesi alla fine del 1800, la statua di sant’Antonio era da tempo venerata presso un santuario da fedeli «pagani» – riportano le cronache – che la chiamavano «Nana Ntona». La festeggiavano con riti solenni, per garantirsi prosperità e vita. Alla fine del secolo XIX, i missionari rivendicarono la devozione a sant’Antonio di Padova come un culto cristiano, riportando così alla fede cattolica un gran numero di suoi devoti. Oggi il Ghana gode delle missioni sostenute dai frati del Santo con opere di grande spessore religioso e sociale, apprezzate dal popolo e dallo Stato.

E a Padova – parliamo ancora di Africa devota al Santo – ogni anno, la domenica dopo la festa di sant’Antonio, un folto gruppo di eritrei ed etiopi, immigrati in Italia, si dà appuntamento in Basilica. È gente semplice che dimostra riconoscenza deponendo oggetti, provenienti dai propri Paesi, ai piedi della tomba del Santo.

Anton Budau, un francescano di origine rumena, per anni vissuto a Istanbul (Turchia), ci racconta che nella chiesa francescana di quella città, ogni martedì, sant’Antonio diventa profeta della convivialità delle differenze. Ortodossi, protestanti, musulmani si mescolano ai cattolici per deporre sacchetti di pane riservati ai poveri ai piedi di un’immagine del Santo. A volte è qui che confluisce il frutto del digiuno praticato durante il Ramadan. Alle 11 la chiesa si riempie di gente di diverse religioni ed etnie per partecipare alla messa in rito latino.


Amato da popoli e culture

Dal Libano, Massimiliano Chilin, frate del Santo a Beirut, ci informa: «In Libano cristiani e musulmani vivono nel rispetto reciproco le proprie scelte religiose e culturali e godono di cinquanta luoghi di culto eretti in onore di sant’Antonio di Padova. A lui si rivolgono i malati, chi cerca oggetti perduti, i giovani fidanzati, le donne sterili o quelle che desiderano avere figli maschi, promettendo al Santo di far indossare al figlio, tanto desiderato, l’abito francescano. In Libano molti portano il nome di Antonio e pare che, dopo la Vergine Maria, sant’Antonio sia il santo più venerato. In certi luoghi la festa di sant’Antonio è celebrata non solo il 13 di giugno, ma anche il 16 e 17 agosto. Forse perché queste ultime date sono vicine a quella di nascita del nostro caro Santo (15 agosto, secondo la tradizione). Per la festa del Santo (13 giugno), preparata con una novena e chiusa da una grande processione, un numero considerevole di pellegrini sosta in preghiera tutto il giorno e, a volte, fino a tarda notte, anche quando la ricorrenza cade in una giornata lavorativa. Quando la chiesa francescana di Beirut è chiusa, la gente rimane davanti alla grande statua di bronzo, eretta sul piazzale della chiesa, dono del “Messaggero di sant’Antonio”».

In Europa non c’è chiesa cattolica (talvolta anche protestante e anglicana) senza l’immagine del Santo, che si presenta con il Bambino in braccio poggiato sulla Bibbia e una cassettina ai piedi con la scritta «Pane per i poveri».

Di rilievo la rinascita della devozione a sant’Antonio di Padova in Romania, dopo circa quarant’anni di propaganda e dominio comunisti (1948-1989). Il Paese registra una fioritura di vocazioni francescane, impegnate nella evangelizzazione e nell’aiuto ai poveri. Una comunità di giovani frati, nel Convento dedicato al Santo a Roman, provvede a una carità sistematica e organizzata, seguendo le leggi civili in vigore, per favorire l’autonomia economica dei più deboli. «Il nostro motto, preso da sant’Antonio, è “Vangelo e carità” – confida un frate della comunità –; a questo abbiamo aggiunto il detto rumeno: “Con la nostra povertà possiamo arricchire molto gli altri”».

Per concludere, uno sguardo alle Americhe. Quella del Nord deve la devozione al Santo soprattutto agli immigrati europei. Quella del Sud ai missionari francescani. Chi viaggia in America Latina può testimoniare che ogni chiesa cattolica porta segni di culto antoniano. Qualche anno fa, chiesi a un anziano in ginocchio ai piedi di una statua del Santo nella Cattedrale di Città del Guatemala: «È molto importante per voi sant’Antonio?». Mi rispose: «È sempre qui, ma lo senti e lo vedi dappertutto. Perfino nell’Isola di Pasqua».

Nelle cronache dei francescani del Messico si legge di un incontro tra un gruppo di giovani frati francescani e monsignor Oscar Romero, arcivescovo di El Salvador, ucciso il 24 marzo del 1980: «Voi mi pensate un predicatore ispirato dal popolo, ma in casa avete molto di più, un campione di predicatore del Vangelo, coraggioso nel difendere i deboli dal sopruso dei potenti e nel denunciare la corruzione e il malcostume nella società e nella Chiesa del suo tempo: sant’Antonio di Padova».

Un giornalista francese dice di aver visto la cattedrale di Haiti ridotta a un mucchio di macerie dal recente disastroso terremoto, e una sola statua ancora intatta: quella di sant’Antonio di Padova.

Forse, ancora una volta, dove noi cerchiamo una risposta, lui ci precede.



Pregare i santi.

Il santo, un uomo felice


Molti anni fa, a Rimini, ho incontrato Madre Teresa. Ricordo come fosse ieri la sua persona, piccolissima di statura, magra, la schiena curva – fisicamente, l’avresti detta una donnina da niente –. Ma, i suoi occhi: indimenticabili. Due occhi che dal basso si piantavano nei tuoi, e ti veniva istintivo quasi di arretrare di un passo, tanto da quello sguardo ti sentivi letto e penetrato. «Questa donna capisce senza bisogno di parole cosa io sono», ho pensato con inquietudine. Ma subito in quello stesso sguardo ho avvertito l’allargarsi di una generosa misericordia: come di una madre, che ai figli tutto perdona.

Ecco, da allora quando penso ai santi penso a quegli occhi. Così doveva essere lo sguardo dei nostri santi: di santa Rita, di sant’Antonio di Padova, di padre Pio. Lo sguardo di chi, partecipe di un po’ della sapienza di Dio, vede gli uomini esattamente per ciò che sono. E tuttavia li abbraccia.

Allora pregare un santo diventa qualcosa di diverso che impetrare il favore di un potente, come a noi spesso verrebbe naturale. È invece un mettersi davanti a un uomo grande, e che però è stato un uomo. Uno che dunque sa la nostra fatica, la miseria, e il bisogno di aiuto. Uno che per queste cose è passato, e ora le guarda dall’alto – come dal campanile di una cattedrale si guardano le case di una città –. Ma quello sguardo, invece di giudicare, si commuove, guardandoci. L’uomo più solo e reietto del mondo può pregare un santo: come un fratello grande e buono, come il fratello che non ha mai avuto. E non sarà forse ciò che domandiamo che ci viene dato, ma qualcosa invece di cui, non sapendolo, abbiamo più bisogno. Forse una faccia amica, forse un po’ di pace interiore, forse perfino una sconfitta. (Sa più di noi, quell’amico, ciò che ci occorre davvero).

Ma la grazia più grande, che quasi mai chiediamo, è proprio di imparare lo sguardo dei santi: quello sguardo lucido sugli uomini, eppure misericordioso. Quella capacità di perdono, che fa rinascere. Non li chiediamo, gli occhi come quelli di Madre Teresa, perché fatichiamo a capire una cosa. E cioè che i santi non sono semplicemente «buoni» e generosi: sono, prima di tutto, uomini felici.

Felici in Dio. Non è, questa felicità senza limiti, eterna, ciò che in fondo sogniamo? La domanda più grande è: fammi diventare come te. Sfacciata pretesa, per dei poveretti quali siamo. Eppure, chissà. Osare l’audacia di domandare, di tutte le cose, la più immensa: essere felici in Dio, come Teresa, Antonio, Caterina, Pio, come quella schiera che ci guarda misericordiosa dal cielo.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017