Le parole e la Parola
Assistiamo quotidianamente a un enorme spreco di parole. Siamo alluvionati da un flusso costante di suoni e segni superficiali che non hanno alcuna intenzionalità relazionale e che per lo più dobbiamo sopportare, trascinati – a volte complici, ammettiamolo! – da un fiume in piena che ci frastorna e ci travolge: lunghi discorsi per dire poco più di niente, estenuanti monologhi nostri o altrui per mettere al riparo i propri piccoli interessi, gossip di condominio nei quali si esercita il taglia e cuci a trecentosessanta gradi, ridondanti luoghi comuni per evitare di inoltrarsi nell’avventura della comunicazione vera. Appesantiti, inoltre, dal bla-bla ininterrotto dei media, vecchi e nuovi, da un rumore di fondo insistente e pervasivo.
Anche leggere un quotidiano è diventato un bell’impegno. Il giornalaio ti consegna un pacco di carta e spesso un sovrappeso di pubblicità a pagamento, e solo guardare in prima pagina i richiami a francobollo degli articoli sviluppati all’interno mette un brivido: di scoraggiamento più che di stimolo. Siamo ben lontani dalla regola che un direttore americano ripeteva a ogni nuovo giornalista: «Usa le parole come se dovessi inviare un telegramma e pagare di tasca tua».
Insomma, oggi le parole sono di gran lunga svalutate nella loro funzione di mettere l’uomo in cammino verso la verità, o, se si vuole, verso il centro di se stesso, per muovere da lì a un incontro autentico con l’altro. Sì, perché la parola di spessore matura nel silenzio, nell’humus dell’interiorità, nei tempi lunghi della riflessione e del confronto, innanzitutto tra sé e sé. A prescindere da queste condizioni trionfa la chiacchiera e l’intrattenimento, la logorrea (dal greco logos, cioè parola, e reo, scorrere irrefrenabile) sfibrante e inconcludente. «Parole, solo parole», è un’espressione di irrimediabile diffidenza, di allergia nei confronti dei troppi e inutili discorsi.
Senza trascurare, comunque, la forza che le parole possiedono. Pensiamo solo al peso delle molte parole che possono ingarbugliare la vita o redimerla: per chi attende giustizia, per chi vuole ricostruire una relazione, per chi agogna al riconoscimento della propria dignità, per chi desidera condividere un dolore o un pezzo luminoso della sua storia… Con le parole si può escludere, ferire, ma anche incoraggiare, incontrare, dare senso alle cose, interpretare, e molto altro. Dalle mie parti, quando due giovani sono fidanzati si dice che «si parlano».
La vita cristiana si concentra in particolar modo intorno alla Parola di Dio, e da questa viene suscitata, nutrita, accompagnata, riabilitata, salvata. Nella Parola è Dio stesso che ci parla, ci tocca in profondità, ci trasforma, ci orienta, ci spinge all’azione, anche se non sempre l’attenzione data ad essa è proporzionata alla centralità che dovrebbe avere. Troppi cristiani vivono un cristianesimo senza riferimento costante alla Scrittura; seguono buone abitudini religiose imparate così come s’impara il galateo, regole morali apprese in famiglia o nell’iter formativo, ma non ne conoscono il radicamento biblico e quindi la scaturigine più autentica e feconda. Da questo punto di vista è innegabile l’urgenza e l’attualità del tema che sarà affrontato nella XII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, dal 5 al 26 ottobre. Il titolo riprende, non a caso, il capitolo VI del testo conciliare Dei Verbum, nel quale si traggono le conclusioni pastorali del documento: si raccomanda infatti a tutti i fedeli contatto continuo, lettura spirituale assidua, studio accurato, frequente lettura delle divine Scritture. Con san Girolamo è dunque possibile affermare che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo». Il dialogo tra Dio e l’uomo, che ha in Cristo il suo centro, non può che essere nutrito dalla Parola.