L’economia delle relazioni

Il pericolo è che il business uniformi la società, la pieghi alle esigenze del mercato, ne annulli le differenze anziché valorizzarle.
03 Giugno 2000 | di

Fino ad oggi abbiamo pensato che il fenomeno dell'emigrazione fosse giustificato e dettato dalla povertà  e dall'incapacità  di una terra di dare una prospettiva alla sua gente. Un'analisi giusta che trova riscontro oggi in Italia per il fenomeno disordinato dell'immigrazione e, ieri, per il contributo dato fino agli anni Sessanta dall'emigrazione. Una storia lunga, questa, per il nostro Paese. Basti pensare che dall'unificazione il nostro Paese ha registrato circa 27 milioni di espatri a fronte di soli 9 milioni di rientri. Se esaminiamo questo dato in maniera cruda, dovremmo definirlo un saldo negativo assai pesante. Ma non è così. L'emigrazione ha dato un contributo ieri e lo può dare oggi nella società  che cambia economicamente e politicamente.

 Il contributo di ieri è sotto gli occhi di tutti. Per quanto riguarda il Veneto, per esempio, questa terra abbandonata a malincuore è stata una messe per chi è rimasto. Anzi la sua evoluzione ha potuto contare sulle rimesse finanziarie degli emigranti, sulla ricchezza di esperienza dei pochi che tornavano e sul mantenimento dei rapporti. Non si può spiegare l'attualità  dell'Italia senza tenere presenti questi fattori.
Il nostro Paese ha superato un'agricoltura arretrata per avviarsi verso un processo di sviluppo industriale che lo ha portato ad essere tra i 7 Paesi più industrializzati del mondo. Un fenomeno, quello dell'emigrazione, che ha interessato tutte le regioni italiane, dalla Sicilia alla Lombardia fino all'attuale ricco Nordest del Paese.
Un processo di sviluppo che si è basato su una fortunata e positiva combinazione di risorse interne ed esterne. Non possiamo sottovalutare come si siano felicemente coniugate risorse interne e risorse che hanno avuto l'avventura di affinarsi fuori della nostra patria, acquisire nuovi fattori di successo e diventare elemento di traino per lo sviluppo della terra d'origine.
  Non è facile trovare la voglia di riflettere su questo passato. Una mente troppo legata al presente evita giudizi articolati, né si interroga in modo adeguato sul futuro. E qui forse ci può essere la novità  maggiore. Il processo di internazionalizzazione dell'economia sta globalizzando anche la società . La tecnologia ha fatto cadere le barriere geografiche e politiche, ci imporrà  in futuro un nuovo modo di trasferimento delle merci. In questo contesto credo che gli emigranti possano costituire una nuova opportunità  per la loro terra d'origine e quest'ultima possa contribuire a rinsaldare in modo nuovo e forse più forte i rapporti. Ritengo che la nostra classe dirigente - politica e amministrativa - e gli esponenti del mondo della finanza e dell'economia italiana, abbiano cominciato a comprendere che la globalizzazione dell'economia, anche nei suoi risvolti sociali, possa utilizzare nuovi percorsi. Mi riferisco alle potenzialità  che oggi esprimono i nostri concittadini, lontani dalla nostra terra, ma a noi legati da affinità  culturali. Costituiscono un patrimonio per i residenti in patria che possono affidarsi a loro per esplorare nuovi mercati e procedere a forme di de-localizzazione. Si può parlare oggi in modo più completo di «Villaggio Globale». Il mondo è considerato un «Villaggio Globale». L'economia evidenzia sempre più elementi globalizzanti. Abbiamo maggiori difficoltà  a distinguere livelli di economia geograficamente ben definiti. L'Italia ha un patrimonio di cui poche realtà  possono disporre.
È necessario essere consapevoli che nella globalizzazione dell'economia, il nostro Paese ha una ricchezza in più che consiste nella presenza nel mondo di nostri connazionali. Significa che ormai le distanze, la capacità  di relazione sono una variabile logica, quasi scontata nei processi economici e che le integrazioni e lo sviluppo dei Paesi non possono prescindere da un patrimonio di relazioni industriali.
L'economia italiana vuole oggi esplorare e percorrere queste strade, anche valorizzando possibilità  e opportunità  rappresentate da quanti si affacciano alle nostre esperienze già  forti di un proprio bagaglio. Ritengo in particolare che dovremmo fare uno sforzo collettivo non solo di scambio culturale, non solo di scambio di esperienze amministrative ma, comprendendo quelli che sono stati gli elementi di sviluppo in patria e di come questi possano essere ulteriori elementi di sviluppo al nostro interno. Non è solo un problema di relazioni e di rapporti con i nostri interlocutori. La globalizzazione dell'economia, l'introduzione della tecnologia avanzata hanno sì fatto cadere barriere geografiche ma impongono anche una nuova cultura di cui noi, residenti in patria, dobbiamo farci carico per primi.
Abbiamo bisogno di riscoprire nuove risorse immateriali tra cui: l'informazione, la formazione, la capacità  di cogliere per primi l'evoluzione della domanda e dell'offerta dei Paesi, dei vari sistemi economici ma, oltre a ciò, credo vi sia un patrimonio nuovo da scoprire: quello delle relazioni.
Occorre riflettere sulle difficoltà  incontrate nei recenti vertici mondiali per il commercio. Le contestazioni sull'Uruguay Round hanno trovato un'eco molto ampia prima a Seattle, poi a Washington, dimostrando che i veri problemi del pianeta non possono trovare soluzioni in ristretti vertici senza coscienza.
Evidentemente i Paesi forti, sbagliando, pensano di poter dettare regole che la cultura «più evoluta» non accetta. Sia ben chiaro che non si possono tollerare i modi violenti della contestazione ma neppure sottovalutarne la portata. Dicevo, nella prima parte, che l'emigrazione impone un salto culturale. Ritengo che i nostri Paesi, quelli della vecchia Europa in particolare, debbano comprendere la ricchezza su cui può contare una società  integrata e multietnica. Ma veramente possiamo pensare, noi, terra di emigrazione, che il fenomeno si possa affrontare con le vecchie regole? E il nuovo delle regolamentazioni, possiamo veramente credere possa ridursi all'assegnazione di un codice fiscale? Se così avessero fatto i Paesi verso cui l'Italia ha costretto molti conterranei, quale sarebbe oggi la nostra qualità  di vita? Molti Paesi che hanno ospitato veneti, siciliani, calabresi, oggi basano il loro sviluppo, anche culturale, su questi contributi. Lo stesso può e deve fare il nostro Paese per essere veramente moderno.
Che ne sarebbe del nostro Paese se in passato si fosse privilegiata la circolazione di capitali e merci a quella degli uomini? Oggi il lavoro, il benessere economico, la società  intera è frutto di intelligenze e di saperi di cui non si distingue più il titolare. Ogni individuo è portatore di intelligenza e di sapere, e su questo suo contributo si può fondare una società  «globalizzata» nel sistema economico e nelle relazioni.
L'Italia, Paese di relazioni per vocazione e per necessità , ha un elemento di ricchezza maggiore rispetto agli altri se saprà  valorizzare quelle «relazioni naturali» che ci sono in quanti, lontani dalla loro patria, di questa conservano affinità  culturali e capacità  imprenditoriali. Bisogna ricostruire quelle relazioni che possono diventare, per chi è in Patria e per quanti l'hanno dovuta lasciare, la nuova risorsa per l'economia e la società  umana del terzo millennio.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017