Divorziati risposati, come la mettiamo?
«Caro direttore, seguo con interesse le aperture di papa Francesco. Confesso però un certo disorientamento quando leggo commenti come quello di Lucetta Scaraffia su “La Stampa” del 20 settembre, dal titolo Divorziati risposati ora i sacramenti. Poiché la confessione, oltre al pentimento per i propri peccati, richiede il proposito di non ripeterli, mi pare che il sacramento della comunione a una coppia risposata presupporrebbe l’abolizione dell’indissolubilità del matrimonio (o il proposito di una vita di castità che si ridurrebbe quasi sempre a ipocrisia). Mi sembrerebbe importante una chiarezza su questi aspetti, in assenza della quale vedo il rischio di interpretazioni confuse e opportunistiche».
Lettera firmata
Carissimo, direi che è sempre lecito attendersi sorprese nella Chiesa «ospedale da campo dopo la battaglia», come papa Francesco l’ha definita. Per rispondere, mi soffermo su tre aspetti. Innanzitutto, il punto di partenza non è la legge, ma l’amore misericordioso, sull’esempio di Dio. Accogliere, accompagnare, coinvolgere nella comunità, essere vicini a chi vive situazioni irregolari di coppia è non da oggi una preoccupazione dei cristiani. Tuttavia, la questione sta acquistando un rilievo crescente, perché le fila dei divorziati risposati si ingrossano sempre più. Ora, con le sue affermazioni il Papa ha posto il problema all’ordine del giorno. Tornando dalla Gmg di Rio, ad esempio, ha affermato: «Se il Signore non si stanca di perdonare, noi non abbiamo altra scelta che questa: prima di tutto, curare i feriti. È mamma, la Chiesa, e deve andare su questa strada della misericordia». Poi, ed è il secondo punto, ha affrontato la questione della comunione ai risposati: «Io credo che questo sia necessario guardarlo nella totalità della pastorale matrimoniale. (…) Siamo in cammino per una pastorale matrimoniale un po’ profonda».
In questo cammino, una tappa fondamentale sarà il sinodo straordinario dei vescovi sulle sfide pastorali della famiglia, indetto da Francesco per ottobre 2014: sarà il contesto migliore per dibattere anche il tema dei risposati. Perché – ed è l’ultimo punto – il rischio di equivoci e forzature è dietro l’angolo, e i titoli del tipo Il Papa apre su aborto e divorzio comparsi sui media sono fuorvianti, dal momento che l’apertura riguarda i peccatori, mai il peccato. Nell’ospedale da campo che è la Chiesa si curano i feriti, ma si combattono anche le armi che quelle ferite hanno provocato. E concludo da dove sono partito, con una splendida affermazione di papa Francesco che trovo nell’intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro, e che è anche un invito ad aver fiducia: «Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro (…), Dio è nella sua vita. (…) Bisogna fidarsi di Dio».
Scalfari, il Papa e il primato della coscienza
«Gentile direttore, in un colloquio privato il Papa avrebbe detto a Eugenio Scalfari che “Dio perdona chi segue la propria coscienza” e che “ciascuno di noi ha una visione del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui lo concepisce”. Confesso che sono rimasto un po’ confuso…».
Lettera firmata
Subito dopo la risposta di papa Francesco al giornalista Eugenio Scalfari c’è chi ha parlato di un’apertura inedita del Pontefice al relativismo e chi addirittura di negazione dell’esistenza di una verità assoluta da parte della Chiesa. Capisco, dunque, la sua confusione, ma la invito a riflettere sul fatto che oggi è molto difficile – e lo è ancora di più per un Papa – esporre le proprie idee senza incorrere nel rischio di essere strumentalizzati, cosa che papa Francesco sa benissimo ma che accetta per amor di dialogo, perché non crede negli arroccamenti ma in una Chiesa che si apre al mondo, forte della sua Buona Novella.
In realtà, quando papa Francesco dice di seguire la propria coscienza non sta invitando i fedeli a costruirsi una morale fai da te, diversa per ciascuno. Sta dicendo che ognuno di noi è in grado di arrivare alla verità tramite la coscienza, perché in ogni persona c’è un frammento di Dio. Non a caso il filosofo e beato John Henry Newman, che al tema dedicò profondi studi, definì la coscienza «il maestro di Dio nel nostro intimo».
La coscienza di cui parla il Papa non si compra al mercato né è così semplice da avere. È una ricerca di verità, un reale allenamento interiore, compiuto anche con l’ausilio di una guida spirituale, che ci impegna tutta la vita e che ci mette profondamente in discussione. Solo così essa diventa quella voce interiore che permette all’uomo di distinguere il bene dal male, al di là del proprio interesse e dei propri giudizi di parte. Questa possibilità di discernimento e di bene è alla portata di tutti gli uomini di buona volontà e fa parte della nostra esperienza quotidiana. Quante volte ci è capitato di aver fatto una scelta ma di aver sentito nel profondo che non era quella giusta, bensì forse la più comoda o la più facile? Questa voce ci trascende e ci chiede di andare al di là di noi stessi. Non credo che Scalfari condivida la stessa visione di coscienza di papa Francesco. L’idea di «fare un tratto di strada insieme» – un tratto, non l’intero tragitto –, veniva da una preoccupazione profonda: ritrovare insieme, e ognuno dal proprio posto, il filo che possa ricondurre al primato del bene comune in questa società. Una società che, è opportuno sottolinearlo, giorno dopo giorno sta perdendo la coscienza del bene e del male e la capacità di andar oltre i propri egoismi, rischiando così di perdere anche se stessa e il proprio potenziale di bene.
Alla fine tutto ci verrà regalato
«Gentile direttore, sono da anni un abbonato al “Messaggero di sant’Antonio”, “Parole di vita” e “Credere Oggi”. (…) Penso di essere, pur con tutti i miei limiti, una persona retta, seria e con la coscienza a posto. Eppure ho paura che alla fine della mia vita non accederò alla salvezza. (…) Secondo lei che cosa posso fare per condurre una vita che mi porti alla salvezza? Mi aiuta? La ringrazio».
Lettera firmata
«Il cuore del messaggio di Dio è la misericordia», l’ha ripetuto spesso papa Francesco in questi mesi di pontificato. Non si contano, infatti, le omelie in cui il Vescovo di Roma ha ricordato che Dio Padre concede a chiunque lo chieda il suo perdono e lo fa in modo assolutamente gratuito. Non sono passati inosservati nemmeno i suoi inviti ad accostarsi al sacramento della riconciliazione, o i suoi appelli a riconoscersi tutti peccatori (e infatti ultimamente le confessioni sono aumentate di molto).
Basterebbe anche solo questo per leggere in un’ottica diversa i suoi timori, caro lettore. Ognuno di noi, infatti, è un peccatore: «Il giusto pecca sette volte al giorno» si legge nel libro dei Proverbi (24,16), intendendo in tal modo sottolineare come il peccato faccia parte dell’esperienza umana.
Non è dunque quanto facciamo a garantirci il perdono di Dio: certo, la nostra volontà (rafforzata da un continuo dialogo con il Padre nella preghiera) di compiere il bene è importante, ma questa non ci impedisce di cadere in errore e di essere molte volte mancanti nei confronti del bene. Che cosa fare allora? Ritorniamo a quanto scritto all’inizio: dobbiamo confidare nella misericordia e nel perdono del Signore, riconoscendo dinanzi a lui i nostri limiti e le nostre fragilità. Nessuno di noi può arrivare al termine della propria vita certo della salvezza. Alla fine del nostro cammino, così com’è avvenuto all’inizio del nostro percorso umano, tutto ci verrà regalato: un dono è la vita, un dono è il perdono che il Padre gratuitamente ci elargisce.
Presenza discreta ma importante
«Le reliquie di sant’Antonio sono state un dono davvero grande per tutti noi. Per i ragazzi dell’equipaggio è stata una bella sorpresa e sicuramente sarà anche una bella esperienza che porteranno alle loro famiglie. La fede con cui i ragazzi si avvicinavano alla Reliquia sarà sempre per me un ricordo intenso che porterò nella memoria come uno dei momenti più belli vissuti sulle navi. Anche gli ospiti hanno apprezzato molto la celebrazione alla quale abbiamo partecipato tutti insieme. Eravamo in tanti e mi ha fatto molto piacere la presenza del comandante che, alla conclusione, ha recitato a nome di tutti la preghiera a sant’Antonio. La presenza a bordo delle navi dei sacerdoti è importante. Siamo piccoli, siamo fragili, ma il buon Dio ci sostiene sempre e si serve di noi per portare il suo messaggio in mezzo ai tanti fratelli che vivono in mare. La preghiera è il nostro punto di incontro. Chiediamo al Signore che, per intercessione del Santo di Padova e di Maria nostra cara Mamma, benedica tutti noi».
Don Orlando
Questa lettera è stata inviata da don Orlando, cappellano in una nave della Costa crociere, a fra Luigi, un frate del Santo che ha portato a bordo una Reliquia di sant’Antonio. Abbiamo voluto pubblicarla per richiamare l’attenzione su un popolo, quello del mare, di cui spesso ci si dimentica. Si tratta di uomini e donne costretti, per guadagnarsi da vivere, a stare lontani da casa per molti mesi all’anno. Vivono così in una situazione di solitudine che, se non adeguatamente supportata, rischia di segnarne in modo pesante le esistenze.
Ecco allora che anche la semplice presenza di una Reliquia del Santo può davvero aiutare a dare forza e coraggio ai loro giorni. Sant’Antonio, venerato dal personale di bordo ma anche dai turisti (che hanno magari approfittato del periodo di vacanza per ritrovare il tempo di un rapporto personale con il Signore), è stato, ancora una volta, segno dell’amore del Padre.
Lettera del mese. Immacolata concezione
Sì, poteva dire di no
Dio ha inteso creare delle persone libere, la cui risposta d’amore non fosse né scontata né obbligata. Perché se a lui devono andare, che ci vadano in libertà.
«Spettabile redazione, si avvicina il Santo Natale e vorrei porgere una questione riguardante la Madonna quale Madre del Messia. La dottrina ci insegna che la Vergine Maria ha risposto affermativamente e in piena libertà alla chiamata rivoltale dal Padre a diventare la Madre di Gesù. Ma, sempre dalla dottrina, sappiamo che Maria è stata concepita, per volontà del Padre, senza peccato; ora, come si può conciliare l’essenza della Immacolata Concezione con l’eventuale rifiuto alla richiesta del Padre? Maria, nella sua condizione di Immacolata, era veramente libera di accettare o rifiutare l’invito del Padre? In caso di rifiuto, Maria avrebbe mantenuto la sua condizione di Immacolata? Vi ringrazio per l’attenzione e con l’occasione porgo fervidi complimenti per il vostro periodico, cordiali saluti e tanti auguri per le prossime festività».
B. C. – Mantova
Se è pur vero, parafrasando il filosofo Blaise Pascal, che la fede conosce ragioni che neanche la ragione stessa conosce, rimane altrettanto vero che credere non è assolutamente un atto irrazionale. Se no, sarebbe un atto dis-umano, vale a dire che non potrebbe appartenere alla nostra umanità in quanto tale. E cioè, prima degli eventuali gradi accademici che uno può o meno acquisire. È, questa, la prima considerazione che si affaccia alla mia mente di fronte al quesito davvero interessante e profondo del nostro amico lettore: non è banale curiosità intellettuale, nella misura in cui ogni verità contenuta nel nostro Credo non è solo vera in sé, ma anche per la nostra vita. Dice, ci dice, qualcosa della nostra vita di fede. Ciò chiarito, va pure subito aggiunto che la nostra fede ci insegna anche a riconoscere e accettare la nostra fatica di tutto capire e tutto comprendere, e cioè la presunzione di tutto racchiudere ed esaudire nelle nostre sole categorie umane. Illudendoci di sciogliere quel mistero che, invece, continua imperterrito ad avvolgerci, nonostante secoli di teologia e scienza.
Con tutta l’umiltà del caso, perciò, tento di balbettare una possibile risposta. Ripartendo da lontano, per la precisione da... Adamo ed Eva. Che cosa c’entrano i nostri progenitori? Tante attualizzazioni in tal senso suggerite tra le pagine del Nuovo Testamento e dalla nostra tradizione spirituale mi aiutano un po’. Perché anche Adamo ed Eva, realtà dell’umanità uscita dalle mani del Creatore, erano «immacolati», almeno fino alla disobbedienza sotto l’albero del bene e del male. Quindi anche loro possedevano tutti i presupposti, grazia divina in particolare, per dire convinti il loro «sì!». Eppure, sono riusciti incredibilmente a dire «no!». Come è stato possibile ciò?!
Perché Dio ha inteso creare delle persone «libere», la cui risposta d’amore non fosse né scontata né obbligata. Avendo soffiato il suo spirito in loro, quell’uomo e quella donna non potevano che essere stati creati capaci di amare con lo stile di Dio. Come amano talora gli innamorati e gli amici, o come la madre ama il figlio. O come amerà Gesù, che darà la vita per tutti. Non costretti, come potrebbero ipocritamente amare uno schiavo o un opportunista: «Il peccato è un abuso di quella libertà che Dio dona alle persone create, perché possano amare lui e amarsi reciprocamente» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 387). L’«immacolata concezione» non è l’assicurazione, quasi la «predisposizione genetica», che nella vita non ci capitino fatiche, dolori e persino possibilità di sbagliare o di commettere peccato.
Questo, in definitiva, rimane per me il grande mistero, che è mistero d’amore che si staglia sulla nostra umanità: che Dio ci abbia creati liberi, inizialmente certo nella migliore delle nostre possibilità di essere tali per amare (come, senza dubbio, è accaduto per Maria di Nazaret). Ultimamente, con qualche difficoltà in più frutto del nostro assenso al male. Ma senza ripensamenti, mi consta, da parte di Dio circa l’eventualità di continuare a correre il rischio che l’uomo e la donna usino in maniera distorta della loro libertà, perché se a lui devono andare, che ci vadano… liberi.
Continuare a pensare all’immacolata concezione di Maria forse ci dovrebbe richiamare un po’ la concezione immacolata con cui anche noi siamo rotolati dalle mani di Dio. Che però con il nostro egoismo e autosufficienza continuiamo a rimettere fuorigioco. Ad annullare, forse è meglio dire, perché subito dopo il perdono misericordioso di Dio la riattivi.
2 novembre 2013
Lo scorso 2 novembre, durante la celebrazione eucaristica in suffragio di tutti i cari defunti della grande Famiglia Antoniana, il direttore generale del «Messaggero di sant’Antonio» fra Giancarlo Zamengo (in alto a destra), con fra Giancarlo Capitanio (in alto a sinistra), fra Luciano Segafreddo e fra Ciprian Sava (in basso, da sinistra) hanno portato all’Arca del Santo
le ceste contenenti le preghiere inviate da voi lettori. Ognuna di queste preghiere ricordava una presenza cara: familiari, congiunti, amici che ci hanno preceduto nella Casa del Padre. Li abbiamo affidati tutti al nostro caro Santo e alla misericordia del Padre celeste. A loro abbiamo chiesto di guidarci dal cielo a una vita buona.
Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org