Lettere al Direttore
Partorire in Italia è sicuro?
«Mi hanno colpita le storie di alcuni parti finiti in tragedia, con gravi menomazioni a danno di partorienti o neonati se non addirittura con la loro morte. Penso, per esempio, all’episodio avvenuto qui in Sicilia. Insomma, non siamo mica in Africa, possibile che in Italia non si possa partorire con tranquillità?».
Rosa C. – Catania
La stampa ha riportato in questi mesi alcuni casi di parti che hanno avuto purtroppo esiti gravi e non rimediabili. Sia a Nord (anche in provincia di Padova) che a Sud d’Italia è successo che una nascita che doveva essere un momento di gioia si è trasformata in fonte di grande sofferenza. Ma è giusto fare qualche distinguo. Quante donne morivano una volta di parto, lo sanno bene le nostre mamme e nonne. «Nessuna gravidanza è mai stata senza rischi», scrive sul «Gazzettino» Alessandra Graziottin che è specialista in ginecologia e ostetricia e direttrice del Centro di ginecologia e sessuologia medica del H. San Raffaele Resnati di Milano. Il parto può riservare tutta una serie di problemi non prevedibili (e qui bisogna distinguere gravi complicanze da errori evitabili). Tuttavia – scrive ancora la professoressa Graziottin – «occorre analizzare la realtà italiana con solidità di dati scientifici e clinici», e questo ci porta a dire che «l’Italia è il Paese al mondo più sicuro per partorire, con 3,9 decessi ogni 100 mila nati» (in Africa muoiono 1570 donne ogni 100 mila nati). Una ricerca, pubblicata sulla rivista «The Lancet», vede l’Italia al primo posto per la sicurezza durante il parto (vengono dopo Svezia, Gran Bretagna e Usa). Lo stesso ministro della Salute Ferruccio Fazio ha recentemente ribadito che partorire nel nostro Paese è «sicuro» e l’ultimo rapporto sulle nascite in Italia, realizzato dal ministero della Salute, rileva la preferenza per le strutture pubbliche, che offrono in genere standard di assistenza migliori rispetto alle private. A onor del vero, va anche detto che in Italia si registra l’aumento progressivo di cesarei, (che si attestano attorno al 37 per cento contro il 15 per cento raccomandato dall’Oms), ma qui si apre un altro capitolo che non è il caso di affrontare ora. Allora, cara signora, le mamme vanno rassicurate e alle strutture sanitarie nazionali va garantita la possibilità di continuare ad assisterle in modo adeguato durante il parto con medici, ostetriche e infermiere che aggiungano alla competenza clinica anche una «contagiosa» serenità.
Scuola: riforma o taglio delle spese?
«Gentile direttore, ho letto l’intervista di settembre al ministro Gelmini. L’impressione non è stata ottimale. Sono insegnante elementare da oltre 25 anni. Si potevano fare tante cose per migliorare il nostro sistema di istruzione. Tuttavia quanto messo in atto non si può chiamare “riforma”, bensì “taglio delle spese”. Gli sprechi c’erano, e anche rilevanti: la scuola è stata usata come impieghificio di massa, ma vi erano anche le possibilità e i motivi per farlo. A oggi i frutti del lavoro della Gelmini hanno avuto il risultato di esasperare quanti lavorano nella scuola. Quando il ministro si riferisce al superamento del maestro unico mi chiedo di che cosa vada parlando. La scuola che esce dalla sua riforma è sempre più fatta di spezzoni di orario di più insegnanti. Sicuramente peggio di prima».
Luigi C.
«Sono un’insegnante di lettere, in pensione da 4 anni. Sono rimasta piuttosto sconcertata nel leggere l’intervista di Carlo Napoli («Messaggero» 9/2010)al ministro Gelmini. Una cosa mi ha colpito in particolare: la Gelmini afferma che buona parte dei mali della scuola sono derivati dal famoso ’68. La signora Gelmini non era ancora nata nel ’68: la verità è che gli anni ’60 sono stati anni di profondi cambiamenti, speranze, generose utopie; gli anni di papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, di Martin Luther King. E noi giovani insegnanti leggevamo i libri di don Milani, dai quali si attingeva la straordinaria idea di sollevare proprio i più deboli della società a un buon livello di istruzione che li rendesse adulti più autonomi e responsabili».
Carolina V.
Molte lettere sono giunte in redazione dopo l’intervista al ministro Gelmini: ne ho scelte due, che ho dovuto oltretutto sintetizzare. Esprimono una preoccupazione per lo stato della nostra scuola condivisa da molti, me compreso. L’aver dato spazio al punto di vista istituzionale del ministro non significa abbracciarne in pieno le tesi, pure autorevoli, né autorizza a considerare esaurito l’argomento. Nel numero di ottobre, ad esempio, abbiamo parlato di scuola con altri toni intervistando Eraldo Affinati, scrittore e professore alle superiori, e in questo numero mettiamo a fuoco la situazione della ricerca in Italia; al ’68, invece, era dedicato l’editoriale di maggio 2008, nel quale si sottolineavano le ombre ma anche le luci di quel periodo. Ma veniamo all’argomento scuola: i problemi strutturali non mancano, ma esistono anche parecchie eccellenze da mettere nel conto. In definitiva, non c’è bontà della scuola che non passi attraverso l’impegno personale di ciascun attore in gioco, come sottolinea anche Luigi C. nella conclusione della sua lettera: «Fortunatamente per i nostri ragazzi, anche là dove le condizioni non sono buone, gli insegnanti cercheranno ancora una volta di non esacerbare il tutto, di fare in modo che i ragazzi non patiscano lo scotto della situazione». È lo spirito giusto. E non vale solo per la scuola.
Come aiutare mia cugina depressa?
«Le scrivo per chiederle un consiglio: come si può aiutare una persona che soffre di depressione? Vedere mia cugina a soli 28 anni in condizioni drammatiche – non vuole mai alzarsi dal letto... – mi rende molto triste. Vorrei tanto aiutarla…».
Lettera firmata
Smarrimento, preoccupazione, tristezza e, soprattutto, il desiderio di trovare una soluzione: lei esprime in poche righe la reazione tipica di una persona che si trova ad avere a che fare con un parente o un amico depresso. Di colpo cambia la relazione: la persona depressa ha atteggiamenti e bisogni nuovi a cui non siamo preparati. Appare indifferente alla vita e alle relazioni, senza energia, paralizzata in un dolore sconfinato e insondabile; una situazione destabilizzante specie per chi è più vicino e si sente responsabile, in alcuni casi persino colpevole di questa sofferenza. Le domande si moltiplicano: che fare? Spronarla? Compatirla? Sostituirsi a lei? E poi riuscirà a uscirne? Spesso, per quanti sforzi si facciano, i risultati sono deludenti. E allora può subentrare un senso d’impotenza, di rabbia, il pensiero che tanta disperazione sia inconsolabile, oppure, al contrario, una iper-responsabilizzazione che alla fine rischia di prostrare.
La vera domanda allora è: come aiutare una persona depressa mantenendo una visione equilibrata e positiva della vita? Libri e siti internet stilano spesso il decalogo delle cose da fare e da non fare; in questa sede, anche per brevità, ridurrei i consigli a due: stare accanto senza giudicare e senza «perdere» se stessi e aiutare la persona a rivolgersi a un terapeuta. Ma per fare al meglio sia l’una che l’altra cosa occorre un ulteriore fondamentale elemento: la conoscenza della natura dello stato depressivo e il superamento del pregiudizio che ancora lo circonda. Per questo ci sono associazioni che hanno un servizio telefonico professionale (un esempio è l’Associazione piemontese per la ricerca sulla depressione tel. 011 6699584) o alcuni buoni sussidi (più agile: Stop all’ansia e alla depressione di Valerio Albisetti, Paoline; più completo: E liberaci dal male oscuro, Serena Zoli intervista lo psichiatra G.B. Cassano, Tea); senza dimenticare il ruolo decisivo dello specialista. In ogni caso, la conoscenza orienta. Per esempio, se un parente sa che la depressione mette in scacco proprio la capacità di esercitare la volontà, non se la prenderà con il congiunto perché non sa reagire né con se stesso perché non è in grado di restituirgli l’amore per la vita. Eviterà frasi controproducenti del tipo «tirati su» … «ma dai che non è niente» che accentuano il senso di colpa, già pesantissimo in chi soffre di depressione, ma al contempo eviterà un altro tipico errore: sostituirsi in tutto alla persona depressa. Anzi, le starà accanto discretamente permettendole di esercitare i residui della sua capacità di reagire. Allo stesso modo, sapere che la depressione è una malattia curabile aiuterà a fare i passi giusti e a considerare questo momento difficile come una fase dell’esistenza. «La depressione – scrive Anselm Grün in Percorsi nella depressione (Queriniana) – vuole sempre dirci qualcosa. Ha un messaggio per noi. Vuole invitarci a mettere in discussione i nostri criteri e a considerare il mistero della vita con occhi nuovi». Un invito non facile, quasi beffardo, ma da prendere sul serio.
Infertilità, quali soluzioni praticabili?
«Il mio unico figlio e sua moglie desiderano tanto avere dei bambini, ma purtroppo lui produce un numero di spermatozoi così ridotto da precludergli la possibilità di diventare padre nei modi naturali. Deve ricorrere alla fecondazione assistita. Da parte della Chiesa vi è una chiusura al diritto di avere un figlio se, per raggiungere tale gioia, si ha bisogno dell’aiuto di un medico. La Chiesa permette che un medico trapianti un organo, nell’intento di salvare una vita umana: perché non deve valere la stessa cosa per due coniugi che si amano e ai quali Dio non ha negato la possibilità di avere dei figli, ma permetterebbe loro di raggiungere tale risultato solo con l’ausilio di un medico? Pregherò nostro Signore per chiederGli di darci la gioia di un nipotino: la via la trovi pure Lui».
Lettera firmata
Gentile signora, ci rasserena l’amore con cui parla del matrimonio di suo figlio e dell’auspicio di vedere realizzato il desiderio di maternità-paternità di questa giovane famiglia. Lei ha ragione quando sottolinea che i figli rappresentano la felicità della vita di coppia e che la loro presenza è segno dell’amore responsabile che unisce i due giovani. Di certo la scoperta di non poter concepire secondo quanto la natura dispone è sempre fonte di grave sofferenza ed è assolutamente comprensibile che le persone cerchino possibili soluzioni.
Proprio nella prospettiva di questo legittimo desiderio di avere un figlio, vorrei dirle che la Chiesa non esprime una chiusura assoluta e pregiudiziale a una possibile soluzione al problema dell’infertilità. In particolare, la Chiesa desidera tutelare il diritto alla vita e l’integrità dell’embrione ed evitare tutto ciò che possa disgregare la specificità e l’unità della vita di coppia. La posizione della Chiesa è quindi sempre propositiva nel promuovere e proteggere il progetto di vita che la coppia unita nell’amore intende realizzare. Per essere autentico, tale progetto non può ricorrere a mezzi e strumenti che finiscono per essere contro la vita stessa o per generare livelli di sofferenza personale o famigliare ancora maggiori. A una coppia cristiana non è impedito di ricorrere all’aiuto della medicina per tentare di superare un problema di infertilità. Viene solo chiesto di evitare tecniche che sono contraddittorie con il fine stesso del dono della vita e della tutela della sua dignità.
Mi permetterei di suggerire alla giovane famiglia di rivolgersi con fiducia, per esempio, a uno dei tanti consultori di ispirazione cristiana che offrono consulenza nel campo dell’infertilità, per iniziare a cercare le soluzioni praticabili. È possibile ancora rivolgersi al proprio medico o ginecologo di fiducia, esponendo il problema e sottolineando il desiderio di un percorso diagnostico-terapeutico rispettoso dei valori di fede che la coppia intende vivere. Grazie infine per il suo desiderio di affidare al Signore la felicità di suo figlio e di sua nuora: noi sappiamo non solo che l’amore di Dio non ci lascia mai, ma anche che percorre sentieri più grandi del nostro cuore, spesso impossibili da spiegare.
Lettera del Mese
Salvezza: nessun diritto di precedenza
Chi è certo della salvezza, badi bene di non confidare troppo nelle sue forze, nei meriti che ritiene di aver accumulato o nella presunta «vicinanza»a Dio.
«Caro padre, sto facendo una dura esperienza di vita che non riesco a non collegare al Vangelo di domenica scorsa, della porta a cui busserò e il padrone potrebbe rispondere che non mi conosce e ci sarà pianto e stridore di denti. Dietro a quella porta è davvero la fine di ogni speranza? Possibile che all’orecchio di Dio non giungano quei pianti e quel rumore di denti che battono? Anche lì sarà come sulla terra? Mi spaventa l’idea. Grazie di quanto mi dirà».
Lettera firmata
Ho un amico di nome Andrea che quando sente proclamare il brano dell’evangelista Luca con quel particolare – quasi horror – di «pianto e stridore di denti», confessa di essere attraversato da un brivido di paura. E non è il solo. Il suo imbarazzo e la domanda che ne segue, quindi, cara signora, sono ampiamente condivisi.
È una storia che viene da lontano e che riverbera i suoi effetti su molti credenti, ancora sotto l’influsso di quel cristianesimo che ha confidato, più che sull’annuncio della misericordia di Dio (ricordo che Vangelo significa, letteralmente, «buona notizia»), sulla sua presunta implacabile capacità di punire, magari con raffinata crudeltà, chiudendo in modo drastico la partita allo scadere del tempo. Fuori chi è fuori e dentro chi si trova nel recinto giusto, magari appena a un passo da quella porta che una volta sigillata separa – rendendoli per sempre non comunicanti – il mondo dei salvati e quello dei dannati. Una certa teologia preconciliare, squallida e terroristica, era giunta a vedere nel pianto il risultato del tutto ovvio del fumo prodotto dal fuoco, mentre lo stridore di denti sarebbe derivato, all’opposto, dal gran freddo che costringeva a battere i denti. Con fantasia fervida e un po’ di sadismo, si interpretava l’inferno come passaggio dalla graticola al freezer e viceversa, pensando così di incoraggiare al bene (o di scoraggiare a compiere il male) e contribuire alla salvezza di molti.
La pagina evangelica di Luca 13,22-30, proclamata nella XXI domenica del Tempo ordinario, quest’anno in data 20 agosto (e che vi invito a rileggere per intero) ha un significato molto più ricco: non intende intimorire per poi lucrare sulla paura, quanto piuttosto mettere in guardia sulla serietà delle scelte di vita. La porta larga, la via degli stolti, non conduce da nessuna parte, mentre la via stretta (che non significa chiusa e nemmeno per pochi eletti) dà maggiore garanzie in ordine al raggiungimento della salvezza. Ma partiamo dalla domanda che innesca la risposta di Gesù: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». In questo interrogativo c’è inquietudine e furbizia, la preoccupazione dell’uomo che vuole essere rassicurato e al contempo si dimostra incline a una salvezza a basso prezzo, ottenuta facendo il minimo necessario. In quel tempo vi erano sia risposte rigoriste (pochissimi i salvati) che lassiste (tutti, o quasi, salvi) a questa domanda, un po’ come accade oggi, ma Gesù non sembra affatto interessato a offrire previsioni. Parla piuttosto di un capovolgimento: chi è certo della salvezza, badi bene di non confidare troppo nelle sue forze, nei meriti che ritiene di aver accumulato o nella presunta «vicinanza» a Dio. «Voi, non so di dove siete», queste le parole rivolte a chi considera la salvezza come fatto scontato. Con un finale umanamente impensabile, che scombina ogni pianificazione: «Vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi». Tornando al pianto e allo stridore di denti, questo sembra piuttosto riservato a chi ritiene di avere in proprio la garanzia della salvezza, e quindi non a chi, davanti a immagini così drammatiche, sente pena e inquietudine per una vita personale che vorrebbe diversa, più luminosa, e invoca la grazia divina della conversione. La speranza che gli ultimi possono nutrire, in ogni caso, non deriva da qualche privilegio acquisito (non sarebbero più ultimi!), ma dal fatto di poter essere raggiunti da una grazia immeritata che spalanca la porta dell’incontro con il Signore. Concludo con una semplice considerazione: se in cielo le cose andassero come vanno sulla terra, la novità del regno di Dio sarebbe ben poca cosa. Per fortuna non è così.