Lettere al direttore

27 Gennaio 2011 | di

Apocalisse al rallentatore. Notizia di costume
 
«Caro direttore, ho letto in questi giorni la notizia della moria di tortore nella zona di Faenza, in Emilia Romagna. Si dice che siano ormai migliaia le tortore morte che, letteralmente, “piovono dal cielo” senza apparente motivo. Sono state avanzate le ipotesi più diverse: virus, inquinamento atmosferico, avvelenamento da mangime avariato... ma nulla pare convincere gli esperti. Questa vicenda un po’ mi ha spaventato: non è che ci stiamo davvero approssimando, a piccoli passi, alla fine del mondo?».
Lettera firmata

Dopo le migliaia di merli (ma anche pesci tamburo) morti tra Arkansas, Kentucky e Louisiana e alcune centinaia di corvi misteriosamente piombati a terra in Svezia, è toccato all’Italia con le tortore di Faenza (in provincia di Ravenna), dove almeno 400 esemplari – stando ai primissimi dati – sono caduti dal cielo stecchiti, senza motivo apparente.
La notizia è rimbalzata su alcuni media a cavallo dell’Epifania, ma il no problem del solito esperto l’ha rimessa in lista d’attesa: stordimento da botti di capodanno, freddo sotto la media in alta quota e nei fiumi, veleni atmosferici e virus aggressivi, variazioni del campo magnetico, ecc. Sul web, in molte chat, ha ripreso fiato l’ipotesi dell’imminente fine del mondo, perfino in antici­po sulla data apocalittica (21 dicembre 2012) suggerita da un antico calendario maya.
Dal niente al troppo, per non leggere quello che è invece abbastanza ovvio ma ci ostiniamo a non voler vedere. Che il nostro habitat, cioè, è compromesso, sporco, avariato, e che qualcuno comincia a non starci più e tira le cuoia. Certo non ci spaventa ancora l’ampliarsi dei deserti, ma intanto le cavallette, che un tempo arrivavano esauste fino alla Sicilia e alla Calabria, atterrano e figliano nella pianura padana. Per non parlare dell’effetto serra, che dopo un inverno così rigido è molto meno credibile.
Il grande regista Alfred Hitch­cock, nell’indimenticabile film Gli uccelli (1963), aveva immaginato stormi di corvi impazziti che, senza alcun motivo, si avventavano sugli umani uccidendoli. Oggi, il contrario è più probabile ed è quanto sta accadendo. Nello stillici­dio di un’Apocalisse quotidiana («a piccoli passi», come lei dice in maniera del tutto calzante) che fatica ad andare in prima pagina, e quando ci va è considerata «notizia di costume».
 
La bandiera di tre colori che piace così
 
«Nell’anno in cui si festeggiano i 150 anni dell’unità d’Italia non si placano le polemiche sulla bandiera. Per qualcuno simbolo di oppressione più che di libertà, “triculore” più che vessillo intorno al quale riconoscerci tutti italiani. Mi fa piacere che in una recente copertina della rivista abbiate messo in bella vista la bandiera. Bravi!».
Gianni – Ferrara

«E la bandiera di tre colori, sempre è stata la più bella, e noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà!». A chi ha qualche anno in più sarà senz’altro capitato di sentire o addirittura canticchiare queste strofe (a me sì) senza farsi troppi problemi. Né se la bandiera italiana sia poi così bella, né se sia esagerato inneggiare con tanta enfasi a un panno che garrisce al vento. Comunque sia, la Costituzione recita, al n. 12: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni». Descrizione tecnica che agli occhi e soprattutto al cuore dice molto di più. Il 7 gennaio, dando inizio ai festeggiamenti per i 150 anni della nazione, il presidente Napolitano a Reggio Emilia ha ricordato la bellezza, e non solo l’importanza o l’utilità, di un segno sotto il quale riconoscerci tutti italiani, e non solo – aggiungo – quando gioca la nazionale. Non amo la retorica, ma nemmeno mi piace quella retorica dell’antiretorica che sospetta di tutto, che vuole sedare preventivamente ogni increspatura di entusiasmo, che stronca sul nascere gli impeti collettivi anche quando innocui. In crisi acuta di astinenza da simboli condivisi e quindi in grado di unire, non è il caso di accanirsi contro uno dei pochi che abbiamo – forse ingenuamente, evviva l’ingenuità! – imparato ad amare fin da piccoli. La disillusione che scivola troppo velocemente nel disfattismo è un sentimento facile, banale, improduttivo. Forse la bandiera italiana non è proprio la più bella, ma bella sì, almeno così mi ostino a credere.
 
Dare ragione  dei valori  non negoziabili
 
«Noi cattolici, su argomenti quali eutanasia, aborto, procreazione assistita, siamo visti con insofferenza in quanto portatori di verità non negoziabili che, non contenti di applicare a noi stessi, vorremmo imporre a chi non condivide i nostri valori. Ciò dipende, a mio avviso, dal fatto che non supportiamo a sufficienza i nostri valori con argomentazioni razionali.
Sostenere, per esempio, che l’embrione va difeso perché la vita è un dono di Dio, non può certo convincere chi in Dio non crede. La mia modesta argomentazione laica, in merito, è che non considerare persona umana uno zigote già in possesso di tutte le istruzioni per la “costruzione” dell’individuo nei suoi minimi particolari sarebbe come non voler considerare un libro come tale quando è chiuso, pur contenendo esso tutti i caratteri che formano il suo racconto, e pensare quindi che esso possa essere gettato nella spazzatura. Supportare i nostri valori con giustificazioni laiche, di cui le mie sono solo un povero tentativo, non renderebbe più accettabili le nostre verità?».

Samuele (e-mail)

Gentile lettore, lei mette a fuoco una delle questioni fondamentali dell’impegno dei credenti nell’ambito sociale e politico. Come ci ricorda il Concilio Vaticano II, l’incontro con l’esperienza di Gesù di Nazareth, il Crocifisso-Risorto, svela pienamente l’identità dell’essere umano e rende evidenti i valori che costituiscono la base indispensabile per realizzare la propria vocazione nella comunione con gli altri. Questi fondamenti antropologici sono stati così identificati dal cardinal Angelo Bagnasco: «La dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna». Come si può facilmente intuire, si tratta di un patrimonio di valori che la stessa ragione umana e il senso comune possono riconoscere e condividere; anche la Costituzione italiana – nella quale essi sono presenti, affermati e difesi – li indica quali riferimenti fondamentali per la convivenza democratica. Sarà allora compito di tutti i credenti rendere conto della ragionevolezza e dell’universalità di tali valori, del vantaggio irrinunciabile che da essi deriva per il bene comune. A tal fine vanno formulati argomenti non dogmatici, ma persuasivi e basati su rigorosi ragionamenti, al fine di convincere anche chi non si professa cristiano sulla necessità del loro rispetto, per una società a vera misura d’uomo. Se tali valori, infatti, venissero a mancare, anche sulla base di un voto di maggioranza, le leggi che ne deriverebbero sarebbero ingiuste e conseguentemente la convivenza sociale si farebbe inospitale. È questo impegno di dialogo con gli altri, di ricerca comune della verità intorno all’uomo e al bene comune autentico che deve essere messo al centro dell’attività dei laici nella realtà secolare, forma autentica di «carità cristiana» e ingrediente indispensabile per recuperare tutti all’interesse per la cosa pubblica.
 
La paghetta aiuta a crescere?
 
«Caro direttore, ho un bambino di dieci anni e so che molti dei suoi compagni di classe ricevono una “paghetta” settimanale. La nostra famiglia non ha problemi economici ma non ho mai dato denaro con regolarità a mio figlio. Lei che ne pensa?».
Loredana – Como

La premessa doverosa in materia di paghetta ai figli è che ogni famiglia è un caso a sé e che dare la paghetta ai figli non è obbligatorio per alcun genitore. Ci possono essere bambini che ricevono denaro dai genitori solo quando devono effettuare le loro piccole spese, e questa «gestione» funziona al meglio. Detto questo, non sono contrario alla paghetta, anzi. Credo, infatti, che possa rappresentare un momento di crescita e di responsabilizzazione. Con la paghetta il piccolo impara a contare, a capire il valore del denaro; comprende che i soldi non cadono dal cielo, ma vengono guadagnati con fatica. Si può scegliere di coinvolgere il bambino quando si vanno a fare degli acquisti, mostrandogli che, spesso, per comprare ciò che si desidera ci vuole tempo e programmazione. Anche autorevoli pedagogisti ne sostengono il valore educativo: è bene consentire al bambino (dagli otto anni in poi, prima sarebbe prematuro) di fare le proprie scelte e i propri errori anche nella gestione del suo piccolo budget. La paghetta può essere elargita in cambio, per esempio, di un piccolo contributo al lavoro domestico. Come punizione – suggeriscono ancora gli esperti – meglio vietare temporaneamente un videogioco o la televisione piuttosto che togliere la paghetta. Costa più fatica al genitore, ma serve di più. E poi, non mancano i casi in cui i piccoli «stipendiati» danno lezione agli adulti: è avvenuto in una scuola romana, i cui alunni hanno destinato parte della loro paghetta all’acquisto di doni per coetanei ricoverati in ospedale.
 
  
IL MERA allarga gli orizzonti
 
Ha quasi cinquant’anni ma non li dimostra. È il «Messaggero dei ragazzi», il mensile del «Messaggero di sant’Antonio» dedicato ai 10-15enni, fondato nel 1963. Nel 2011 diventa «tutto nuovo!», come si legge sulla copertina del primo numero dell’anno, con aggiornamenti grafici e una rinnovata attenzione per i temi cari ai ragazzi. «Cari amici – scrive il direttore Fra Simplicio nell’editoriale di gennaio –, la domanda che ci ha accompagnato nel realizzare il nuovo “Messaggero dei ragazzi” è stata questa: come riuscire a rendere ancora più grande il vostro mondo? C’è un solo modo: allargare gli orizzonti! Per far questo – spiega Fra Simplicio, nei cui panni si cela padre Riccardo Giacon – siamo partiti da voi, mettendo al centro il vostro mondo composto da amicizie, sogni, desideri, emozioni e da tante domande. Non abbiamo tralasciato il mondo che piace a voi. Volete essere sempre aggiornati su tutto: musica, cinema, televisione, videogiochi, libri, internet… il mondo si fa ancora più grande quando vi guardate intorno e ne scoprite le meraviglie, senza dimenticare i suoi problemi. Realizzare il nuovo “Messaggero dei ragazzi” è stato come ricominciare da capo».
Info: sito www.meraweb.it

Festa della Lingua del Santo
 
Domenica 20 febbraio ricorre la festa della Lingua del Santo, memoria della prima ricognizione del corpo di sant’Antonio, nel 1263, quando san Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dell’Ordine dei frati minori, trovò intatta la lingua di Antonio, a oltre trent’anni dalla morte. Ancora oggi quest’evento prodigioso ci svela quale importanza ebbe per il Santo l’annuncio del Vangelo, una «buona notizia» che può diventare pietra angolare anche nella nostra vita di cittadini del terzo millennio.
Tre i principali appuntamenti in Basilica nel corso della giornata: alle ore 9.00 i frati del «Messaggero di sant’Antonio» celebreranno una santa messa durante la quale verrà ricordata l’intera «Famiglia antoniana»; alle ore 11.00, la santa messa solenne. Nel pomeriggio, dopo la celebrazione delle ore 17.00, si snoderà all’interno della Basilica la tradizionale processione con la reliquia del «Mento del Santo», alla quale parteciperanno le associazioni che da secoli hanno un legame particolare con il santuario.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017