Lettere al direttore

29 Marzo 2011 | di

La carne come cardine della salvezza

«Caro padre Ugo, grazie per il diploma di fedeltà alla Famiglia antoniana. Sono arrivato al novantesimo anno di vita e ancora un dubbio mi perseguita. Perché Dio Padre onnipotente, per salvare l’umanità dal peccato originale, si è dovuto fare bambino, è sceso dal cielo, ha vissuto come qualunque creatura umana, subìto persecuzioni e, infine, è morto sulla Croce? Che bisogno c’era che ciò accadesse: non avrebbe potuto fare ogni cosa standosene in Paradiso? Io sono un credente, ma quando mi pongo tale domanda debbo fare uno sforzo per non pensare che è tutta una favola. Però mi impongo di credere. Al riguardo, potrebbe lei dirmi qualche parola che plachi i miei dubbi?».
Ernesto - Vibo Valentia

I dubbi di fede, soprattutto quelli più grandi, sono destinati a rispuntare. Perché Dio ci ha salvati mediante l’Incarnazione del suo Figlio? Non vi era altro modo per venire incontro all’uomo senza compromettersi in un’avventura così rischiosa? Le ragioni che la Chiesa porta per rispondere a queste domande «enormi» sono chiamate dai teologi «ragioni di convenienza», che devono essere in coerenza con ciò che di Dio conosciamo attraverso la sua rivelazione. Di fatto, perché il Figlio, la seconda persona della Trinità, si sia incarnato, non lo sappiamo, ma ci è possibile ragionare dopo che l’Incarnazione è avvenuta e scrutando le sue modalità.
Certo la salvezza cristiana non è un’informazione da parte di Dio, il quale non ha scelto di metterci tra mano un buon libro da leggere o di far valere qualche editto. Caro salutis cardo (la carne è cardine della salvezza), secondo Tertulliano e la migliore tradizione cristiana, richiama con forza l’assunzione della carne da parte di Dio e la salvezza realizzata mediante tale assunzione. Solo ciò che è assunto, dunque, è salvato. Perché? E torna la domanda. Perché – diciamo per motivi di convenienza che ci convincono in quanto Dio stesso li ha resi convincenti incarnandosi – la vicinanza amorevole e totale dell’Eterno, fino a entrare nella morte, ci trascina verso Dio in un legame dopo e oltre la morte, in una salvezza anche della carne. Sublime!

 
Perché essere onesti?
 
«Caro padre, sono stanco. Non è possibile che siano sempre i soliti furbi a farla franca, ad avere raccomandazioni, a sfoggiare ricchezze accumulate non pagando le tasse, a sfruttare le relazioni sempre con un secondo fine, a usare qualsiasi sotterfugio per affermarsi. Anche se poi non è nemmeno giusto parlare di sotterfugi: lo fanno alla luce del sole, come se l’arroganza fosse sinonimo di personalità e quasi dote positiva. Ma ha ancora senso essere onesti? Scusi lo sfogo di un mite».
Gianni - Oristano

La sua amarezza è quella di molti, di fronte a certi modelli di prepotenza che sembrano oscurare ogni alternativa virtuosa. Intanto, sia ben chiaro: lei non contraddice alla dote della mitezza indignandosi, purché le sue parole non siano ingiuriose, ma ispirate dalla volontà di coscientizzare e correggere. Il rischio, altrimenti, è quello ben espresso da un anonimo monaco: «Nel nostro spirito si crea un tribunale, nel quale siamo procuratore, presidente, giudice e giurato; raramente avvocato, se non a nostro favore. Si espongono i torti; si pesano le ragioni; ci si difende e ci si giustifica; si condanna l’assente».
Veniamo però alla sua domanda. Perché essere onesti? Per il cristiano la risposta è lineare: perché lo è stato Gesù, con uno stile esemplare. Questa è una risposta completa, ma poi bisogna argomentare, declinando anche altre ragioni che dimostrino il piacere dell’onestà, lo stesso che – secondo l’ultimo rapporto Censis – gli italiani vorrebbero riscoprire, stanchi delle prevaricazioni.
Pure Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, ha alzato la voce: «Aumentare le aliquote fiscali è fuori discussione: sottoporrebbe i contribuenti onesti a un’insopportabile vessazione». Per perseverare, dobbiamo riscoprire le motivazioni profonde del nostro agire. Poi dobbiamo puntare sulla coerenza – fare quel che si dice – giorno per giorno, scelta per scelta, anche nella fatica. Terzo aspetto, aver fiducia in se stessi. È sbagliato pensare che «io non ho la possibilità di incidere», che «tanto non cambia niente». La società, o una qualsiasi istituzione, in definitiva è composta da singole persone: il loro comportamento può fare la differenza. Quindi, è vietato tirarsi indietro. La delusione non è mai un buon motivo per smettere di essere onesti.

 
Colpito dalla compostezza dei giapponesi

«Sono rimasto impressionato dalla reazione dei giapponesi di fronte alla catastrofe che li ha colpiti. Autocontrollo, compostezza e, soprattutto. grande solidarietà. Mi ha colpito in particolare quel negoziante che subito dopo il terremoto ha offerto a chi ne aveva bisogno la sua merce, perché sicuro che dopo l’emergenza i suoi concittadini sarebbero tornati a pagare. Mi sono trovato a fare amari paragoni con il mio Paese, dove non solo spesso manca compostezza anche in situazioni molto meno gravi, ma dove questo senso dell’onore e della solidarietà sembra ormai cosa d’altri tempi».
Giuseppe - Viterbo

Caro Giuseppe, nelle scorse settimane ho letto vari articoli sull’argomento: noti editorialisti, esperti d’Oriente, professori universitari, gente comune che vive in Giappone, tutti si fermavano a descrivere e analizzare l’autocontrollo dei giapponesi di fronte alla tragedia, andando da una smisurata ammirazione per un «popolo di samurai» allo sconcerto di fronte alla mancanza di emozioni visibili, quasi fosse un comportamento sovraumano. Bene, le confesso che ho provato qualche disagio nel leggere tali analisi, come spesso mi succede quando mi trovo di fronte a una lettura dei fenomeni troppo generica. Credo che in una grande tragedia entrino in gioco così tanti fattori – psicologici, caratteriali, contingenti, culturali, ambientali – che fermarsi a descrivere la reazione del «giapponese tipo» equivale a riproporre il cliché dell’italiano tutto urla ed emozionalità, così in voga all’estero.
Sono andato in Abruzzo subito dopo il terremoto e anche lì, mi creda, ho trovato autocontrollo, un dolore pieno di dignità, un grande senso della comunità e una solidarietà commovente. Ciò non significa che gli elementi culturali non contino. Spesso, quando non si ha più niente da perdere, la scala dei valori comuni può essere la ciambella di salvataggio, la trama su cui ricostruire la propria vita. I valori fondanti di una comunità diventano «cose di altri tempi» solo in una società tracotante, che ha perso il senso della realtà e del limite. Infine, ci sono le caratteristiche proprie di ogni cultura, che derivano da millenarie tradizioni. Il senso dell’onore e della lealtà, la percezione di esser parte di una comunità, l’ideale del dominio delle proprie emozioni, la frugalità, tutti i tratti che gli osservatori tributano al popolo giapponese sono il distillato di una grande civiltà, che ha quasi tre millenni. Una civiltà che ha consentito a questo grande popolo di sopravvivere prima agli effetti devastanti del più grande terremoto che l’umanità ricordi (il Dai Jishin del settembre del 1923) e poi a quelli della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Una storia che è patrimonio del mondo e che darà ai giapponesi la forza per ricominciare.

 
Relazione di coppia prima dei figli

«Caro direttore, sono felicemente sposata da dodici anni e ho due bambini. Lavoro fuori casa. Spesso, dal momento che mio marito si reca sovente all’estero per lavoro, mi sento l’unico pilastro della casa, dovendomi occupare da sola della gestione di essa e dei figli. La mia attuale stanchezza e preoccupazione derivano dal fatto che mio marito e io non riusciamo più a trovare momenti per la nostra vita di coppia, perché il poco tempo che lui ha a disposizione lo dedica ai nostri figli».
Carla - Milano

Cara signora, il suo è un problema condiviso da molte mamme lavoratrici che sono costrette a dividere il poco tempo «libero da impegni professionali» tra casa, marito e figli. È chiaro che il problema va discusso con suo marito, e quindi affrontato e risolto in coppia. I figli hanno diritto alla presenza dei genitori, ma è altrettanto importante per il benessere della coppia anche il tempo che lei e suo marito riuscite a dedicare esclusivamente a voi due. Questo tempo «vostro» avrà positive ricadute anche sui figli. Qualche tempo fa il noto psicologo Ezio Aceti scriveva proprio sulle pagine della nostra rivista: «Un paio di volte al mese il padre esca con la moglie e manifesti al figlio l’importanza del rapporto di coppia, anche se lui protesta e vorrebbe andare con loro. Sembrano piccole cose, ma attraverso di esse il bambino inizia a costruirsi un pensiero suo sulla realtà e sul mondo» («Messaggero di sant’Antonio», marzo 2009). Non è giusto crescere dei piccoli tiranni e «sacrificare» così il benessere della coppia che è alla base della solidità e della serenità famigliare. Dedicare tempo alla comunicazione con il proprio coniuge ed esprimergli il proprio amore significa, nella prospettiva cristiana, collaborare alla realizzazione del progetto che Dio ha per voi come coppia.


 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017