Lettere al direttore
Cosa fa la Chiesa per gli immigrati?
«In una delle ultime trasmissioni di Che tempo che fa, la Littizzetto ha accusato la Chiesa di silenzio sul dramma degli immigrati del Nord Africa e l’ha invitata ad accoglierli nei suoi seminari e conventi. Sarebbe assai utile, per il prestigio della trasmissione, che i responsabili fossero più attenti alle attività caritative della Chiesa. Non credo che essa abbia bisogno delle sollecitazioni della Littizzetto per svolgere il suo compito».
F. B.
Ero giovane frate, venticinque anni fa, quando ho visto con i miei occhi le prime case di accoglienza per gli immigrati, ristrutturate e gestite dalle Caritas diocesane del Triveneto, quando ancora il fenomeno immigrazione era agli albori e il miracolo economico del Nordest aveva bisogno di braccia. Solo qualche settimana fa uno dei miei giornalisti ha incontrato don Francesco Fiorino, presidente della Fondazione San Vito della diocesi di Mazara del Vallo (TP), impegnato da anni nell’accoglienza degli immigrati, che crea, coi beni confiscati alla mafia, attività sociali ed economiche che sono autentici laboratori di convivenza e integrazione tra culture. La Chiesa è da sempre impegnata in prima linea su questo fronte, ma è fatta di tante piccole e grandi realtà, parrocchie, diocesi e anche singoli gruppi che non dispongono né di un ufficio studi che tenga la contabilità del bene fatto, né di un ufficio stampa che possa diffonderne i risultati.
Molto prima della trasmissione che lei cita nella lettera – che ho dovuto tagliare per limiti di spazio – la Caritas italiana stava attuando un censimento delle strutture diocesane che potevano accogliere i migranti in arrivo. Nel momento in cui le scrivo le diocesi coinvolte sono 107, per un totale di 3.117 posti disponibili, che vengono progressivamente assegnati. Fin qui i dati ufficiali. Ma ci sono tanti altri piccoli episodi che parlano di una Chiesa accogliente. Come quello avvenuto il 17 aprile scorso, domenica delle Palme, quando don Claudio, parroco di Maida, paese in provincia di Catanzaro, ha aperto le porte della chiesa a ventuno tunisini usciti dal Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Lamezia, e ha detto ai parrocchiani: «Oggi Cristo ci è venuto a trovare, è in fondo alla navata e ha il volto dei nostri fratelli stranieri. Ognuno di voi ne accolga uno a casa propria e condivida con lui il pranzo della festa». E i parrocchiani l’hanno fatto, senza indugio. Un piccolo segno, nel mare di bene che non viene detto.
Dare un limite al precariato
«Mio figlio ha ormai 35 anni: dopo la laurea a pieni voti, io e mio marito speravamo potesse inserirsi nel mondo del lavoro e costruirsi una famiglia. Invece è passato da un contrattino all’altro finché, al termine dell’ultimo contratto a progetto, è dovuto rientrare a vivere da noi, perché non riesce più nemmeno a pagarsi l’affitto. E non c’è verso di trovare qualcosa di più stabile. Mi sembra impossibile che la sua e le tante situazioni simili passino sotto silenzio».
Orietta – Alessandria
Ha ragione: questa situazione riguarda molte persone, in gran parte giovani. Nel nostro Paese i precari sfiorano quota 4 milioni, secondo l’analisi della Cgia di Mestre (l’associazione artigiani piccole imprese). E se è vero che sono localizzati soprattutto nel nostro Meridione, l’aumento maggiore (più 20 per cento dal 2008 a oggi) si registra in Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna.
La posizione della Chiesa a riguardo è inequivocabile. Nella Caritas in veritate, ad esempio, Benedetto XVI afferma: «Quando l’incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale».
Ancor più di recente è intervenuto il cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Cei, augurandosi «che il precariato sia sempre una fase estremamente transitoria, il più possibile breve, per poter diventare lavoro a tempo indeterminato e per dare anche la possibilità di un futuro, di un progetto di vita». Che fare, quindi? La pubblica discussione sorta dopo la manifestazione nazionale che agli inizi di aprile ha dato un po’ di visibilità al fenomeno del precariato è di per sé un bene, ma l’impressione è che non sia ancora stata formulata un’adeguata proposta politica che possa bloccare questa pericolosa deriva. Sarà comunque necessario passare attraverso quel patto intergenerazionale evocato da diversi commentatori, in modo tale da dare una concreta prospettiva di stabilità (e di una pensione decente) alla generazione dei figli.
Il Papa in visita ad Aquileia e Venezia
lettera dei vescovi del Triveneto
8 gennaio 2011, San Lorenzo Giustiniani
Carissimi,
Come ormai vi è noto, i giorni 7 e 8 maggio p.v. avremo il grande dono di accogliere il Santo Padre Benedetto XVI nella nostra Regione Ecclesiastica, ad Aquileia e a Venezia.
Egli viene a confermarci nella fede, il dono più prezioso che abbiamo ricevuto. Il Suo sarà un incontro con il popolo di Dio del Nord-Est, che affonda le sue radici ad Aquileia da cui sono scaturite cinquantatré Chiese, che vanno ben oltre i confini della nostra Italia attuale.
Il Nord-Est italiano sente inoltre oggi l’urgenza di vivere appieno la sua nuova vocazione di crocevia di popoli latini, slavi e germanici. La nostra fede ci insegna che il Papa è una presenza diretta
e immediata in ogni Chiesa particolare come l’esprimiamo in ogni celebrazione dell’Eucaristia.
È uno di famiglia. Lo vogliamo pertanto accogliere non solo come un ospite gradito ma come colui che, in quanto successore di Pietro, è il garante della comunione ecclesiale. Di ogni nostra parrocchia, di ogni comunità religiosa, di ogni aggregazione di fedeli egli è il necessario punto di riferimento. Ci disponiamo a riceverlo attraverso la preghiera e l’approfondimento del suo magistero.
Vi impartiamo una speciale benedizione.
I Vescovi del Triveneto
LETTERA DEL MESE
Crocifisso, Sindone, padre Pio e un po’ di confusione
«Caro padre, la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo sul crocifisso nelle aule scolastiche mi ha fatto tirare un gran respiro di soddisfazione. Mi pareva impossibile che la vicenda si concludesse con l’esclusione di un simbolo inoffensivo e non certo esposto per indottrinare qualcuno. Che l’Italia sia un Paese a maggioranza cattolica non è un fatto da bypassare a cuor leggero, anche perché a forza di sradicare segni religiosi e culturali omologando gli ambienti del nostro vivere civile, stiamo creando luoghi asettici, spenti e qualunquisti, in tutti i sensi. Che ne dice»?
Lettera firmata
«L’esposizione del crocifisso nelle aule non comporta necessariamente un’influenza di carattere religioso sugli alunni, tale da mettere in discussione la libertà dei genitori a educare la prole conformemente alle proprie credenze, e la percezione soggettiva nei confronti del simbolo religioso non è sufficiente a dimostrare una violazione di tale libertà. Attraverso la previsione del crocifisso nelle scuole pubbliche, lo Stato italiano attribuisce una particolare rilevanza e visibilità alla religione cattolica, in forza della sua presenza storica nel Paese, ma ciò non può essere considerato un indottrinamento né una restrizione delle libertà dei genitori». Il 18 marzo del 2011, con un ragionamento di buon senso, si è finalmente pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo accogliendo in tal modo il ricorso del governo italiano contro la precedente sentenza, del 3 novembre 2009, che praticamente diceva il contrario.
Che insegnamento trarre da questa non limpida vicenda? Intanto che ci si può aspettare di tutto e che, più avanti, una nuova sentenza in opposizione alla recente contro-sentenza rimetta tutto in discussione.
Viviamo in un Paese nel quale anche esporre il tricolore diventa, a intermittenza, atteggiamento non ben sopportato, per cui anche quella del crocifisso è vicenda in evoluzione. Tra l’altro, pochi giorni prima della sentenza del 18 marzo, arrivava in libreria un volumetto, dai toni piuttosto duri, intitolato Il crocifisso di Stato (autore, lo storico Sergio Luzzatto). Secondo Luzzatto, per fare finalmente un’Italia più giusta, più seria, e perfino migliore in senso assoluto, basterebbe abbattere il tabù del crocifisso esposto nei luoghi pubblici, schiodando definitivamente quel pezzo di legno, magari con un po’ d’avorio, da molte pareti bianche dove passa inosservato o viene guardato come segno innocuo.
Magari! Non si capisce però perché l’autore, argomentando sul crocifisso e sostenendo che si tratta di un «problema di storia», a un certo punto si metta a parlare addirittura della Sindone e affermi testualmente che «la comunità dei battezzati ancora prova il bisogno di aggrapparsi a quei pochi metri quadrati di tessuto come al più prezioso dei salvagenti» (p. 30). E più avanti ironizzi sul fatto che a breve, forse, con slancio politico bipartisan, il crocifisso potrebbe essere sostituito da padre Pio: «A dire il vero, nessun politico del Belpaese ancora ha proposto di rimpiazzare con la statuetta di padre Pio anche il crocifisso sul muro delle aule scolastiche e delle aule di giustizia. Ma è soltanto, forse, una questione di tempo» (p. 58).
L’impressione è che ci sia poca sostanza là dove Luzzatto si lascia prendere la mano per mettere in campo giudizi che di storico hanno ben poco. Di fatto, esprime pareri personalissimi con linguaggio ampiamente migliorabile, niente più. E chiama più volte in causa la Corte di Strasburgo, che l’Italia non rispetterebbe per il fatto di aver presentato ricorso. «Non uno che riconosca nella Corte europea dei diritti dell’uomo la realizzazione di un grande ideale» (p. 104).
Ma come la mettiamo ora che la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa con parere diverso da quello di Sergio Luzzatto?