Lettere al direttore

26 Settembre 2011 | di

La «casta» chiede ma non accetta sacrifici
 
«Sono un impiegato a 1.400 euro al mese. Mia moglie è precaria e abbiamo tre figli. Quest’anno ho avuto difficoltà a comprare la cancelleria per la scuola elementare dei più grandi e il corredino per Luca, che inizia la scuola materna. Mentre contavo i singoli euro, la manovra passava al vaglio del Parlamento e i giornali parlavano di un rincaro a famiglia tra i mille e i 5 mila euro l’anno. Ma, sorpresa delle sorprese, nel pieno della mattanza fiscale i politici si sono limitati a ritoccare lievemente i loro lauti introiti. Com’è possibile, su noi la scure e su loro il tagliaunghie? Mi è montata una rabbia tremenda».
Carlo - Cittadino indignato
 
Condivido il suo sgomento insieme, credo, a moltissimi italiani. E di motivi ce ne sono tanti. Non è pensabile che una classe dirigente chieda sacrifici senza condividerli e dare l’esempio. Non è accettabile che si continui a promettere, spesso con toni trionfalistici, il taglio ai costi della politica per poi smentirli il giorno dopo. È successo in passato e si è ripetuto, in modo ancora più smaccato, nell’ultima Finanziaria. A settembre «le scelte epocali» annunciate avevano perso tutto il loro smalto: il taglio del 50 per cento sull’indennità dei parlamentari con altro lavoro è stato sostituito da un prelievo di solidarietà molto più modesto e per giunta a tempo; l’abolizione delle province è stata stralciata e rinviata; i troppo alti compensi pubblici, che dovevano essere adeguati alla media europea, saranno solo equiparati ai sei Paesi dove sono più elevati. Nella manovra non c’è più traccia del taglio del numero dei parlamentari o della norma che impedisce ai titolari d’incarico pubblico di continuare a fruire di pensioni e vitalizi alla scadenza dell’incarico. Epilogo amaro, specie alla luce di alcuni dati pubblicati sul «Corriere della Sera» da Rizzo e Stella: in un decennio i costi del senato sono saliti del 65 per cento, mentre i più stretti collaboratori di Obama guadagnano 15 mila euro all’anno in meno di quello che poteva guadagnare il barbiere di Montecitorio quattro anni fa. Il problema non è solo economico: riguarda la credibilità delle istituzioni, la tenuta della democrazia, e in qualche misura la possibilità stessa di uscire a testa alta dalle secche di questa crisi. Come rilevano ancora Rizzo e Stella, «è stupefacente, oltre che offensivo, che in un momento di difficoltà qual è questo, una classe politica obbligata a farsi “capire” da un Paese scosso, impoverito, spaventato, non capisca la drammatica urgenza di una svolta».
In tutto questo buio c’è un rischio e un’opportunità. Il rischio è abbandonarsi alla rassegnazione, ripudiare per sempre la politica; e sarebbe un danno perché non c’è modo di sanare i problemi e di agire nello scacchiere internazionale senza una classe dirigente accuratamente e democraticamente eletta da un Paese coeso e consapevole. Ne è prova il recente abbassamento del rating sul debito pubblico italiano da parte di Standard and Poor’s, a detta degli analisti dovuto alla bassa crescita e alla debolezza del governo, ritenuto troppo fragile per affrontare la crisi.
L’opportunità consiste invece proprio nel riappropriarsi della politica, imparando dall’esperienza ciò per cui vale la pena impegnarsi. Il momento è cruciale anche per capire che ciascuno di noi è chiamato a controllare chi governa, a promuovere valori e a farli rispettare.
Quello che è successo è anche frutto del disimpegno e di dubbi comportamenti largamente diffusi, e non solo tra i politici.
È tempo di tornare a impegnarsi per il bene comune nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e, ovviamente, nell’urna elettorale.
 
Sessualità, come educare i nostri figli?
 
«Sono mamma di due ragazzi, di 11 e 13 anni, e sono molto preoccupata. Temo di non riuscire a dare ai miei figli un’educazione sessuale adeguata. Pubblicità e televisione fanno percepire il sesso come una delle tante esperienze da consumare presto e senza remore. Come contrastare la cultura dominante? Non credo che un semplice “no” moralistico sia efficace».
Elisa
 
Cara Elisa, oggi molti ragazzi vivono il loro primo rapporto sessuale in giovane età come una sorta di obbligo per adeguarsi alle regole del gruppo. Regole peraltro fortemente condizionate da messaggi anche troppo espliciti di provenienza mediatica. Sono d’accordo con lei, un «no» moralistico servirebbe a poco. Ma come reagire all’ideologia dominante? Innanzitutto presentando la sessualità in modo positivo e costruttivo, senza farne un tabù ma nemmeno un mito. Il tabù fa venir voglia di accelerare i tempi, in barba agli adulti, ma anche la mitizzazione rischia di gonfiare promesse che poi non reggono il confronto con la realtà.
Non si può, inoltre, prescindere dall’educazione sentimentale. E qui l’esempio lo dà innanzitutto la famiglia, ma anche i grandi amori della storia, della letteratura e alcuni buoni film: non mere passioni ma profonde unioni di spirito e d’intenti.
Per agevolare la consapevolezza può inoltre servire la lettura di qualche libro: ad esempio Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamo Principessa di Marida Lombardo Pijola. La giornalista fotografa con crudo realismo il sesso fruito prematuramente e senza coinvolgimento alcuno, in una situazione di aridità sentimentale, di solitudine e vuoto esistenziale. Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un «libidogramma piatto» dove a rimetterci è proprio l’eros, quell’eros che si pretende di esaltare.
Così scrive il pedagogista Daniele Novara nel suo libro Dalla parte dei genitori (Franco Angeli): «Oggi la precocità, erroneamente intesa come libertà di espressione, si trasforma in una prescrizione tirannica, un obbligo, quasi dovuto, nei confronti di una società che fa dell’usa e getta il proprio imperativo. Impostare un’educazione sessuale che sia in grado di comprendere e di aprirsi a una dimensione di senso più profonda dell’essere umano significa insegnare ai nostri figli a stare al mondo, a onorare la vita».

Lettera del mese. Preti Tuttofare

 
Non lasciamoli soli e costruiamo comunità solidali
 
Per sopperire alla carenza di sacerdoti servono comunità cristiane nelle quali i laici (non come truppe di riserva) prendano in carico molte delle cose che i preti sono costretti a trascurare.
 
«Carissimo padre Ugo, grazie per l’azzeccata tipologia di prediche e predicatori che ha presentato nel suo editoriale di luglio/agosto. Alla quale bisognerebbe aggiungere i volti inespressivi di molti preti: sguardi nel vuoto o quasi, gestualità scarsissima. E, aggiungo malinconicamente, la mancanza del saluto terminata la Messa, oppure di un sorriso, di un qualsiasi approccio di legame. Un esempio: da dodici anni andiamo in vacanza nel solito posto e frequentiamo la stessa chiesa per diverse domeniche. Spesso ci siamo chiesti se siamo trasparenti, tanto siamo ignorati. Purtroppo anche nelle nostre chiese paesane e cittadine il comportamento dei preti non si discosta molto da quanto detto sopra e lascia un po’ d’amaro in bocca. Eppure caro padre Ugo, la nostra gioia è grande per il dono della Messa. Il dono è Gesù. Se ci “assentiamo” durante la predica, restiamo possibilmente uniti a Lui, trovando nell’intimo quella spiritualità non assaporata durante l’omelia».
Coniugi Olga Gazzetto
e Giuseppe Bernardello

 
Cari Olga e Giuseppe, grazie di cuore per la vostra e-mail che non riporto nella parte finale: da vent’anni abbonati alla rivista, ne conoscete in dettaglio articolisti e rubriche, con apprezzamenti circostanziati. Mi interessa molto il tema che (insieme ad altri lettori) avete rilanciato, segno di un desiderio autentico di partecipazione alla vita della Chiesa e di reciprocità con la figura, in essa centrale, del sacerdote. È vero, non sempre si incontrano preti gioviali, disponibili al dialogo, o almeno a dire una parola oppure a offrire un sorriso. Troppo spesso anche la figura del prete soffre per un vissuto «burocratico» degli impegni e delle relazioni, gestite con fretta e magari con quella punta di nervosismo che infastidisce. Ma chiediamoci: è tutta colpa sua? Non voglio rispondere direttamente a voi e non discuto la vostra legittima percezione; credo però che la questione sia complessa: in pochi anni, negli ultimi due-tre decenni, anche per i sacerdoti le cose sono cambiate. Il calo numerico delle vocazioni ha ridotto di molto l’inserimento di nuovo clero sul territorio. Là dove un tempo, nella stessa parrocchia, convivevano il vecchio (o maturo) parroco e il giovane pretino fresco di seminario, la divisione dei compiti era più agevole. Tutto, cioè liturgie, carità, cura dei giovani, visite agli ammalati, ecc., non ricadeva su di una sola persona, come oggi avviene quasi sempre. Il prete era inoltre una figura riconosciuta e stimata anche da chi non andava in chiesa, e manteneva pur sempre un ruolo sociale, di persona che poteva dare sia aiuto materiale che sollievo spirituale. Oggi non è più così. Se è una banalità il dirlo, tirare le conseguenze di questa nuova condizione, spesso ardua e di vera e propria solitudine (da single controcorrente, mi verrebbe da dire), non è sempre facile. Aggiungendo il fatto che sovente le aspettative nei confronti dei preti sono, a dir poco, spropositate: li si vorrebbe uomini di raffinata spiritualità ma al tempo stesso avveduti manager nella gestione della parrocchia; capaci di animare con la stessa abilità e amabilità bambini, adolescenti, giovani, persone adulte e anziane; ascoltatori delle pene altrui ma conviviali e partecipi nel condividerne le gioie. Certo, tutto questo è auspicabile ma non sempre possibile. Sappiamo tutti per esperienza che il Creatore ci ha dotati di alcune qualità e non di altre, preti e non. La soluzione dovrebbe consistere in comunità cristiane nelle quali la componente laicale si prende in carico molte delle cose che i preti sono costretti a trascurare. Ma qui si apre un discorso ancora più ampio, vale a dire la presenza o meno dei laici nella vita della Chiesa, non come truppe di riserva, bensì come cristiani che nel battesimo hanno ricevuto l’invio per essere portatori del Vangelo e del suo stile tra la gente, dentro e fuori dalla parrocchia.
 
 

PADRE UGO SARTORIO ai microfoni di ASCOLTA SI FA SERA
 
L’appuntamento è per lunedì 3 ottobre, a partire dalle 19.25 circa, sulle frequenze di Rai Radio 1. Da quel giorno e per un anno, infatti, ogni lunedì (più o meno alla stessa ora) padre Ugo Sartorio si rivolgerà al pubblico del programma quotidiano di informazione religiosa Ascolta si fa sera. I brevi (3 minuti circa) interventi del direttore del «Messaggero di sant’Antonio» spazieranno dalla spiritualità francescana all’attualità religiosa alla cronaca letta alla luce del Vangelo.

Oltre a padre Sartorio, ai microfoni della storica rubrica della radio (è la più antica e una delle più ascoltate) che va in onda dal lunedì alla domenica, si alternano altri quattro editorialisti cattolici, un pastore evangelico (il martedì) e un rabbino (il sabato).
 
 
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017